«Le piccole virtù» di Natalia Ginzburg
Ho letto il libro «Le piccole virtù» di Natalia Ginzburg. La prima edizione risale al 1962, ma riporta testi apparsi su riviste italiane tra l’autunno 1944 e la primavera 1960 (secondo Wikipedia). Letta oggi, questa raccolta di undici racconti, mi «irrita», per cui a tratti ho faticato perché mi veniva voglia di chiuderlo e sbatterlo sul tavolo. Non per la scrittura. Certo che no. Ma per le considerazioni che vengono fatte. Sono prevalentemente testi autobiografici, o pezzi da opinionista, di costume, di società, di politica,… Ed è bene quindi che io li tratti da quel che sono e non come racconti o narrativa.
Perché se fosse narrativa, oggi la troverei per l’appunto irritante, e la troverei irritante per il punto di vista del narratore, che mi pare totalmente privo di capacità di immedesimazione nell’altro, che mi pare esageratamente egocentrico, non che riporti, e nemmeno giudichi, ma addirittura che condanni, e non azioni riprovevoli, ma finanche il carattere dei londinesi, per dirne una, con tale presunzione di quel tipo di chi si trova a un livello d’istruzione o sociale, per un passaporto, o per principi, che sembra dato per scontato essere superiori a chiunque altro.
Mi è venuto da chiedermi più spesso, ma mica pensava davvero quello che ha scritto in quella maniera lì? Poi, però, tornavo subito a considerare l’epoca, il fatto che fosse una donna, il riscatto sociale, insomma, ho cercato di capire quest’autrice e quello che deve aver sofferto – immagino – per arrivare a tanto odiare (e soffrire) l’altro, a non cercare di capire le differenze di cultura, a condannare tutto ciò che non era come se lo aspettava, come pretendeva che fosse; un modo di essere che viene – penso – quando si sta lottando per affermare quello che si è tenendo la posizione, quando si è tanto impegnati a dire Io, io sono!, è difficile prendersi tempo per cercare di capire come sono gli altri… Questo in linea di massima. Mi è piaciuto, comunque, il capitolo tre, «Ritratto d’un amico» dedicato a Cesare Pavese. E ho trovato interessanti anche alcune considerazioni sulla scrittura ne «Il mio mestiere», anche se non tutto. E poco altro.
La Ginzburg, mi rendo conto proiettandomi in quel passato, dev’essere stata una donna coraggiosa, tosta, forte per aver osato a usare la penna in quel modo lì. Oggi non avrebbe senso farlo in quella maniera, forse perché siamo diventati così politicamente corretti che il coraggio è da biasimare e non applaudire. Ogni cosa che viene scritta deve avere in sé una sorta di misericordia, e mi chiedo se questa compassione possa raggiungere livelli di onestà come invece può fare il coraggio. Io credo di sì, ma per riuscirci temo ci voglia… coraggio, ancora più del coraggio che ci voleva una volta. Temo. Chissà…
Di certo non mi convincono per niente certe voci di donne che leggo o sento qua e là, quelle che aderiscono per convenienza o audience, quelle falsamente coraggiose, e talvolta sfacciatamente opportuniste, che adottano toni retorici per acchiapparsi qualche like, le Murgia televisive che intercalano con un “cazzo” discorsi pseudointellettuali per dirsi voce del popolo, svuotando di senso concetti triti. C’è coraggio e coraggio. Uno è divertente e applaudito (il coraggio facile e inutile, il coraggio del gregge), l’altro è quello “vero”. La Ginzburg, per quanto non concorda con quello sguardo oggi fuori tempo massimo, credo – ho letto troppo poco per esserne certa – dicevo, credo fosse animata da un coraggio vero. Quindi ha la mia stima.