La letteratura come status symbol

Rispondo qui a chi mi chiede la ragione per cui leggo se non mi piace farlo, e non sono pochi.


Ho iniziato a leggere per colpa di un biondino (e pensare che i biondini non sono il mio tipo, però mi pareva carino). Mi portò in una libreria di Milano, per il primo appuntamento. Una libreria! A Milano! Un incubo.

Feci finta di nulla, ovviamente. Entrai e compresi che non solo mi aveva portata in una libreria ma stava pure comperando un sacco di libri. Mi dissi che qualcosa avrei dovuto prendere anche io. Avevo già venticinque anni e non avevo mai letto alcun libro, nemmeno un fumetto, nemmeno a scuola. Mi stava simpatica la parola “filosofia” (nello sport che praticavo, si parlava spesso di filosofia di vita). Era inoltre ovvio che avrei dovuto prendere il librettino più piccolo… metti che poi avrei anche dovuto leggerlo!

Finii sull’Apologia di Socrate scritta da Platone. (Tanto per far capire quanto siano importanti i consigli di lettura…). Ci misi una vita per portarlo a termine. Lavoravo in un posto dove avevo molto tempo morto, tempo libero, e così appena potevo mi ci mettevo, tutti i giorni. Circa tre ore per pagina, dizionario alla mano, e mal di testa pazzeschi.

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Emozionare o manipolare?

Ho avuto un pensiero che riguarda il manoscritto finito di revisionare da poco (v. Inediti – L’ombra del tarando): saprei – credo – come dargli una sferzata in più per suscitare un po’ di quel pathos di cui l’ho privato apposta. E potrei farlo senza attingere a quel tipo di retorica che amo poco. Il tutto per scendere a patti con la necessità di suscitare maggior partecipazione del lettore durante la lettura. Anche se una delle ragioni che mi hanno spinta a scriverlo in quel modo lì era quella di “invitare” tacitamente il lettore ad attivare un’immedesimazione meno imboccata, come dire, ad accendere le antenne.

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