«Cent’anni di solitudine» di Gabriel García Márquez
Ho pubblicato su facebook le righe che seguono, in merito al notissimo romanzo di Márquez, scatenando uno scambio di circa quattrocento commenti, se non di più. Alle prime considerazioni, riporto il contenuto anche di alcune delle mie precisazioni. Quindi questa scheda ha una forma diversa dalle altre.
«Ho letto Cent’anni di solitudine e di nuovo non c’entra niente con l’idea che me ne ero fatta sentendone parlare (1). Sembra un libro della Bibbia, una genesi più simile alla genesi che mi ero immaginata dovesse essere, che non a quella che ho poi letto.
E mi sorprende tanto il successo che ha avuto, perché non è esattamente un romanzo romanzesco e mi viene da pensare che oggi forse non verrebbe pubblicato un libro simile fosse a firma di un esordiente (2).
Ancora non ho nemmeno capito se e quanto mi interessa. (3) Da una parte l’ho trovato abbastanza folle da essere «geniale», dall’altra non mi ha dato davvero gusto o piacere leggere queste pagine. Ciò non significa che non mi piaccia (4). Cioè: riconosco che è ben riuscito, riconosco la follia del progetto, intuisco molti rimandi anche simbolici, intravedo delle chicche sociologiche, e delle chimere idealistiche, mi pare chiara la sperimentazione di un genere diverso, capisco che tutto questo abbia un suo portato, una sua importanza letteraria, non trovo nulla che mi infastidisca, cioè che non mi piace, ma mi vien da dire che non mi dice niente questo tipo di lettura (5).
Non mi appassiona. Non mi lascia nulla addosso. Non mi accende lucine in testa. E andrebbe bene se non sapessi che invece è un libro considerato eccezionale e bellissimo per tantissimi (6). Ecco, quando non riconosco una bellezza oltre la “tecnica” io mi interrogo sui miei limiti di comprensione. O di percezione. O di aderenza a uno specifico immaginario. Senza purtroppo trovare facilmente risposte (7).»
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