Che cosa fai quando perdi il tuo alfiere?

«Un re non muore – corso letterario di scacchi» di Ivano Porpora

«Sottotraccia, si percepisce il periodo covidiano degli ultimi due anni, che ha visto l’autore trasferirsi da una provincia alla grande città, in quella Milano ormai orfana della movida, e in una casa per lui nuova, dove sentirsi soli dev’essere stato più inevitabile che altrove. L’appartamento si trova al quarto piano, e l’uomo sembra essersi portato poche cose, la scacchiera sì, ma non i pezzi ché erano di plastica, come certi pezzi di vita, sembra dire: «È come quando un giorno traslochi e decidi dove andare – e dove non vorrai stare più -, cosa vuoi portare con te, cosa lasciare in quella casa che da domani non chiamerai più casa». Forte, il sistema di immagini legato alle case, reali o del gioco, bianche o nere, che esse siano.»

Ho letto il saggio letterario sugli scacchi di Ivano Porpora, Un re non muore (Utet, 2021), e ne ho scritto su Azione.

La versione integrale – per chi lo desidera ma non ha accesso al cartaceo – si trova scrollando verso il basso o seguendo questo link: non richiede iscrizioni perché è un settimanale d’approfondimento gratuito.

Che cosa fai quando perdi il tuo alfiere?

Editoria – Da poco in libreria la nuova opera di Ivano Porpora: Un re non muore – corso letterario di scacchi

«Questo non è un libro di teoria degli scacchi». Lo afferma lo stesso autore, Ivano Porpora, a pagina 126 del saggio intitolato Un re non muore – corso letterario di scacchi edito da Utet, da poco in libreria. E – aggiunge qualche pagina più avanti – non è nemmeno «un trattato di logica combinatoria, questo, ma un romanzo sul mondo […] gli scacchi sono una sorta di fisica della vita, un riassunto formale di regole sostanziali, e quello che accade nella vita in maniera disordinata negli scacchi viene riassunto in un codice».

Non si potrebbe dirlo in un modo migliore. Questo saggio letterario, proposto al pari di un corso di scacchi, gioca molto sulla metafora, scantonando a ogni riga la similitudine, per dire che l’arte delle sessantaquattro case non è come la vita, ma è la vita, e di conseguenza la vita è la messa in gioco di una partita di pedoni e torri, alfieri e re, di cavalli e regine: «Io non amo gli scacchi: io penso come gli scacchi», scrive Porpora.

Sottotraccia, si percepisce il periodo covidiano degli ultimi due anni, che ha visto l’autore trasferirsi da una provincia alla grande città, in quella Milano ormai orfana della movida, e in una casa per lui nuova, dove sentirsi soli dev’essere stato più inevitabile che altrove. L’appartamento si trova al quarto piano, e l’uomo sembra essersi portato poche cose, la scacchiera sì, ma non i pezzi ché erano di plastica, come certi pezzi di vita, sembra dire: «È come quando un giorno traslochi e decidi dove andare – e dove non vorrai stare più –, cosa vuoi portare con te, cosa lasciare in quella casa che da domani non chiamerai più casa». Forte, il sistema di immagini legato alle case, reali o del gioco, bianche o nere, che esse siano.

Ed è così che, l’uomo, cioè il pedone perso in un luogo non suo («gli scacchi non sono solo un gioco di pezzi ma di territorio»), vaga in cerca di una cornice che lo contenga («Giriamo intorno alle cose del mondo che non riusciamo a capire. […] un vagare mossa dopo mossa alla ricerca della verità»), sì, una cornice che delimiti gli spazi nei quali sentirsi al sicuro, dove poter liberare il dolore senza che il re finisca matto, per, in definitiva, cercare una forma di salvezza all’interno di un mondo finito e composto da regole e precetti, grazie ai quali sapere come muovere, pur restando consapevoli del fatto che «…una mossa […] può essere giusta, o vera; poche volte entrambe le cose».

Perdita e alienazione (un re non muore, semmai si perde, impazzisce, ed è scacco matto) sono di fatto due temi presenti: «Ogni giocatore, se gioca a scacchi – intendo: se lo fa davvero –, non può che aver chiaro in testa, in qualche modo, questo concetto di morte o follia; ogni giocatore sa la prima cosa che viene insegnata a qualsiasi novizio nel mondo: perdere. […] Ma quante persone come me hanno trovato negli scacchi rifugio, accoglimento, un modo per incasellare in regole, precetti, criteri e alfieri di colore opposto le spinte eterogenee della vita?»

Così l’uomo, ma anche lo scrittore che davanti a una scacchiera alla quale mancano i pezzi, gli pare di avere che fare con un foglio bianco…

Due i pezzi più importanti che mancano al narratore, e tra questi non c’è il re, che è sì il più importante, ma non il più potente, caratteristica attribuita invece alla donna; il primo pezzo assente. L’altro pezzo che manca, ed è forse il più significativo, è invece il padre: «Sono dovuto passare per la morte di mio padre. È durissima ammetterlo, ma gli scacchi ti dicono, e non è un precetto, che il re sulla scacchiera è l’unico pezzo che non può mai mancare: senza re non c’è gioco. E se, quindi, si continua a giocare nonostante quello che è venuto a mancare sia il re, be’, semplicemente vuol dire che re non era» scrive a pagina 68, aggiungendo venti pagine dopo, che «Se fosse stato di legno (suo padre, ndr), sarebbe stato un alfiere, il suo cammino lungo la casa sarebbe stato di solidi toc: conosceva solo un colore, lo percorreva veloce in diagonale per tutti i punti della scacchiera. Poi, la sua improvvisa tenerezza lo portava di là, sull’altro colore: e quanta delicatezza suscitano le persone che credi girino solo per mezza scacchiera e invece, d’incanto, te le trovi di là».

Scaturisce da queste pagine anche una concatenazione di domande e sentenze, che spaziano dalle riflessioni intimistiche, e talvolta mistico religiose (basti pensare alla «mossa di Dio»), a quelle più esistenziali e filosofiche, per finire in un citazionismo forse un po’ debordante con rimandi bibliografici, storici, metaletterari, filmici: 71 le opere letterarie consultate, e altrettante probabilmente quelle solo menzionate; 15 le opere cinematografiche, secondo la filmografia; innumerevoli, le partite entrate nell’albo mitico universale, quelle che hanno reso maestri di grande ingegno, i giocatori più creativi e coraggiosi.

Manca solo, giocoforza, il nome del campione che vincerà la competizione in corso proprio in questi giorni (v. articolo firmato da Claudio Visentin).

Potere, desiderio, pulsioni, strategia, nella vita come nel gioco. Questo libro lo è, è davvero un corso di scacchi. Forse il più complicato che si potesse ideare, perché non cerca di spiegarne le regole, ma tende a ispirare strategie comportamentali, stimola un’andatura, promuove uno sguardo, dando indicazioni apparentemente generiche che mostrino l’infinità di strade, più che una meta: «Mi chiedevano: “Ma davvero, di cosa vuoi parlare?”. E io raccontavo di storie fumose, questo, quello, quell’altro; e poi dissi: “Ci sarebbe il desperado…”. È il triste destino di un appassionato, cercare di scontornare con le parole, o almeno cogliere con una sorta di brivido ribelle, la bellezza febbrile di ciò che ama per poterla restituire anche solo in un barlume, solo nello svelamento fugace di un capezzolo, nell’ombra di un orlo, in un riflesso che sfugge; e poi restare così, con le dita per aria, a tratteggiare un disegno che inevitabilmente vedrà solo lui, nessun altro».

E a questo punto ci vorremmo soffermare ancora a lungo sulla figura del desperado, ma abbiamo finito lo spazio. E come spiega il Porpora nel suo libro: «a volte, quando ti sporgi sull’orlo del precipizio, essere una mossa avanti significa cadere». Quindi ci fermiamo qui, noi.

Bibliografia

Ivano Porpora, Un re non muore – corso letterario di scacchi, Utet, Milano, 2021

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