Pubblico qui di seguito il testo scritto da me per la serie “Una città, uno scrittore” del Corriere del Ticino.

(Manuela Mazzi, La Domenica, CdT, 26.3.23)
Locarno invetriata. Il cristallo zigrinato si mostra come un quadro appeso alla parete sul retro del Kursaal; il nostro Kursaal, negli anni manomesso e ormai ritenuto indegno di protezione, ma in ogni tempo molto amato dai locarnesi che pure ne difendono le considerevoli aggiunte posticce; il nostro Kursaal, l’unico edificio incastonato tra i due parchi storici: il Pioda, con la Bagnante del Rossi – il Remo – a lavarsi i piedi più che le mani; e il Rusca con il suo stanco toro, sempre del Rossi, simbolo dei borghesi locali, ormai messo in ginocchio dalle cavalcate fotografiche dei numerosi passanti.
Al di qua della finestra fissa, e al di là della corsia, si allunga la stretta terrazza del Perbacco ricavata all’angolo nord-est del Centro Pestalozzi, ai cui tavoli servono fettuccine coi gamberi che fanno sognare riviere mediterranee, al posto del lungolago. È una notte d’autunno, quando, qui seduta a cenare con il drammaturgo vicentino che verrà a mancare di lì a poco, la locarnese, dietro il frangivista di cristallo – suddiviso in rettangoli da linee sottili e nere che richiamano la spessa cornice osserva l’ombra sfumata di una giacca appesa a una gruccia, e quella di una sciarpa cascante da un’altra, a rivelare uno spazio destinato al guardaroba per gli spettatori, o l’atrio dello spogliatoio riservato agli attori da Teatro, trovandosi quest’ultimo al di là dell’accesso alle sale da gioco del casinò che svuota le tasche più ai locarnesi, casalinghe e operai, che non ai turisti rimasti distratti dalle palme infestanti, o fermi di fronte ai giganteschi platani all’angolo ovest del debarcadero, scalo elvetico della navigazione italiana sulle rive del golfo del Lago Maggiore, il loro Verbano, pozza profonda che assorbe e inghiotte i profili delle montagne in fronte a estese pareti finestrate dagli infissi squadrati e moderni, e alle antiche polifore del Santuario della Madonna del Sasso, che situa in collina la venerabile invocata da sempre per non far piovere sul festival cinematografico di casa, anche ora che il festival una casa l’ha trovata davvero nel Palacinema. Qui, oltre il levigato e minimalista imbotte del portale vetrato, suddiviso in due dall’accesso a doppia anta, si intravedono i passanti nel cortile, Piazza Remo Rossi, che formicolano sulla spalmata carminio in cerca di un posto a sedere; il red carpet del Pardo srotolato sotto i piedi dei local che hanno eletto il Movie a luogo di incontro e di aperitivi, avvicinandosi così alla grande rotonda, fortezza sprofondata, suolo di desiderio e di conquista da quando i suoi merletti sono spuntati come denti affilati a mordicchiare la terra sotto i piedi del Castello, non il bar, ma il lascito dei Visconti, di più antica espugnazione, i quali hanno ben nascosto il Rivellino leonardesco, rimasto sino a oggi un’ipotesi intrigante, più che patrimonio cittadino. Nemmeno dall’attico terrazzato della casa del cinema se ne scorge il profilo, che peraltro resterebbe in ogni casosminuzzato dalla tenda quadrettata da 45 mila tessere d’oro a formare la decantata facciata cinetica, e sulle quali, non in tutte, invero su poche sono incisi i nomi di chi del Pala ha gettate le fondamenta e ora ondeggia al vento tra i merli di Piazza Grande e i chiacchiericci da party, impasti di dialetto e svizzero tedesco, piemontese e slavo, vietnamita e spagnolo, indiano e inglese.
Lingue di bocche sfamate ai deschi del buon vecchio ristorante dell’Angelo, dalla cui ampia portafinestra ad arco si vede nascere la famosa piazza, ormai pedonale, sampietrino dopo sampietrino, e poi ciottolo di torrente per ciottolo di torrente, che crescono di numero nello slargarsi del suo letto fluviale in secca, mai ripensato come vera piazza se non dallo Snozzi inesaudito, che ha fatto in tempo a vedere più volte barchette ancora ormeggiate sotto i portici, l’ultima, durante la grande piena del duemila, segno che la natura è sempre pronta a riprendersi il suo affluente morto e calpestato e sede di sedie su sedie e panche di cemento.
Dall’Angelo partono anche le inerpicanti strettoie che, come dita di una mano distesa, si allungano fino alla Città Vecchia, tra vetrinette di gioielli, ristoranti vegani, case da tè canadesi, bistrot artistici, osterie borghesi, bakery americane fino ad arrivare alla Casa del Negromante, affascinante anche solo per i suoi oltre cinquecento anni, che rendono l’«Arca», l’edificio più antico della città, sviluppatasi poi in pianura fino alla foce della Maggia dove d’estate attraccano i nuovi signori venuti da fuori per fare un tuffo da brivido laddove si incrociano le correnti fredde, spinte giù dalla valle, con l’acqua cheta e tiepida della piccola baia lacuale, nascosta alla vista di chi attraversa la nuova passerella dai parapetti crivellati per dar luce allo sguardo, luce concessa anche dalle intere vetrate che formano le pareti del Lido reinventato, attraverso le quali si scorgono i bagnanti da piscina al cloro, la via termale verso l’esterno, e le vette emerse dal golfo, in un gioco di riflessi che trascinano la locarnese dentro e fuori.
Corona verde del galleggiante centro balneare è la siepe che prosegue lungo il perimetro del Parco della Pace, qua e là interrotta, sino al Parco delle camelie che accompagna all’accesso del nostro bagno pubblico.
Nel mezzo, tra quello e questo, il rifugio più intimo, culla dei lucci, che dà silenziosa ospitalità al porticciolo della gente del posto, la Lanca degli stornazzi, unione di terra e acqua, le materie prime che fanno di Locarno la nostra Locarno, libera da vetrate, dove le trasparenze sono inventate dalla natura che ora soffia sulle frange del salice piangente, e più avanti rischiara il fondale melmoso mosso dal guizzar via delle alborelle.
