«Le assaggiatrici» di Rosella Postorino

Un inno alla ribellione personale, sociale, idealistica, sentimentale, erotica, cercata e a volte agita, ma sempre in costante lotta contro una resistenza morale, neanche troppo sotterranea, fatta di senso del dovere, di ricerca del giusto, del lecito, dell’accettazione dell’abominio in nome di cause superiori, di ruoli definiti dal potere, dallo stato sociale, dal desiderio carnale, dalla paura, eccetera eccetera. Un inno alla ribellione, in somma, tra desiderio e rassegnazione, come viene descritto il pianto del bambino Thomas nel viaggio della fuga verso Berlino, sul treno alla fine della seconda parte.
LA TRAMA
Germania, 1943. Rosa, la berlinese, giovane e mi par bella fanciulla, finisce per fare (assieme ad altre donne) l’assaggiatrice del cibo di Hiltler. Non ho ben capito come venivano selezionate (arruolate?) queste donne, se erano costrette o se si proponevano loro, perché attratte dal cibo gratuito e dallo stipendio. Ad ogni modo, qui, la berlinese, ospite dei suoceri – perché il “suo” amato Gregor è partito per la guerra come soldato (scomparendo poi al fronte) – farà nuove amicizie, stringerà qualche alleanza, ma soprattutto cederà alla debolezza della carne… non quella sotto forma di cibo.
Si tratta alla fine dei conti di una messa in romanzesco della storia vera di Margot Wölk. Cercate pure su google; io l’ho fatto prima di saperlo per verificare ciò che mi pareva assurdo: nella mia logica, un lavoro tanto potenzialmente letale lo avrei fatto fare gratuitamente a dei prigionieri, quelli dei campi di concentramento o ex delinquenti, come era uso fare per altri mestieri pesanti o pericolosi. Mettere a rischio la vita del proprio popolo, le mogli dei propri soldati, le madri delle nuove generazioni, mi pare così assurdo che per tutto il libro ho faticato a digerirlo.
Ma non è colpa della Postorino, colpa di quei matti che erano i nazisti, evidentemente. E una ragione in più per mettere in luce questa storia.
Per il resto non vorrei fare spoiler, ma mi tocca, quindi se non lo avete ancora letto: fermatevi qui e saltate alla voce “OLTRELATRAMA”.
Alla fine Rosa instaura un rapporto sessuale ancor prima che sentimentale con il comandante Albert Ziegler, che l’aiuterà a mettersi in salvo dopo il tracollo del governo. A questo punto la storia prende velocità rotolando nel tempo e lungo gli anni, così che veniamo poi a sapere che lo ha ritrovato, il suo amato, anche se la relazione in seguito non ha funzionato. A un tratto ci si ritrova faccia a faccia con Margot che se ho ben capito (oltre che essere un omaggio alla fonte ispiratrice) è figlia di Gregor e Agnes? Giusto? (E chi era già Agnes?) Ma non era incinta anche Rosa? Suo figlio o figlia non è mai nato/a?
Lo ammetto: alla fine mi sono un po’ persa qualche filo per strada, mi sa. (Forse colpa dell’influenza). Cambia poco in verità, perché il bello di questo libro non è tanto la trama, ma sono le relazioni ambigue dei e tra i personaggi, soprattutto quelle che vengono mostrate in scene singole…
OLTRELATRAMA
Molte singole scene sono delle chicche perché contengono, o meglio concentrano il massimo delle contraddizioni, soprattutto quando si incontrano Rosa e Albert Ziegler. Ecco mi rileggerei questi momenti. Lui è per me il personaggio meglio riusciti dell’intero romanzo. Dicevo delle scene. Contengono tutto: il male e il bene, la giustizia e il desiderio, l’amore e l’odio, la forza e la dolcezza… sembra la metafora perfetta di una convivenza difficile tra gli esseri tutti, della lotta interiore ma anche delle guerre piccole e grandi, dove passione e fede e orgoglio e valori e bisogno e vita e morte si contrappongono, si mettono in conflitto, si curano vicendevolmente.
Bei passaggi davvero.
Al pari di certe frasi precise. Come l’”essere degni di sedersi alla sua mensa”, di chiaro riferimento divino, o che che la “cacca” è la prova che Dio non esiste, ma anche altre che purtroppo credevo di non dimenticarmene tanto erano interessanti, mentre invece avrei dovuto prenderne nota.
Questione di stile, mi piace ad esempio anche come descrive certi sorrisi
(ad esempio: “Una risata bassa, arrotolata”). E che allo stile la Postorino ci tenga molto, lo si capisce – secondo me – da una piccola intromissione dell’autrice stessa che fa dire al proprio narratore, forse, un pensiero più suo che non di un’assaggiatrice degli anni Quaranta, che così si esprime in questo passaggio: – “Non si sfugge alla propria sorte” disse (Elfrida) senza voltarsi. (…) Davvero disse una frase così retorica?
“Davvero disse una frase così retorica?” a me è suonato come se l’autrice dicesse: caro lettore, passamela questa, dai, che ci sta troppo bene qui anche se fa un po’ cliché e lo so bene. Ma non mi va di cancellarla.
E io gliela passo di certo. Anche perché la Postorino è riuscita a fare una piccola magia da equilibrista: non ha esagerato. Proprio in quanto retorica, tendenza che io amo molto poco. Non ha forzato. Non tanto da andare al di là del limite. Ci è arrivata vicino due o tre volte (penso all’approccio iniziale tra lei e lui, quando Albert le infila a forza le dita in bocca, dove si capisce il voler dimostrare la violenza trattenuta a fatica, ma è un filo al limite perché poco erotico dato il momento; oppure a quando lei si tocca l’inguine e la carne soffermandosi come una psicotica in un momento che non richiede drammatizzazione, secondo me). Invece è riuscita a rendere tese tutte le scene senza cadere nel voler mostrare quanto poteva calcare di più la mano e – mi permetto – questa cosa ha generato un parallelismo interessante: mi ha fatto percepire l’autrice alla pari di Rosa: come se si fosse trattenuta per un bene superiore. E in questo caso ha fatto molto bene.
Aggiungo un’ultima nota sullo stile della scrittura. A differenza di quanto accaduto con altri libri ambientati nella seconda guerra mondiale, questa è risultata una lettura fresca e molto moderna (se si può dire) pur mantenendo viva l’ambientazione storica (di cui non essendo esperta non posso esprimere giudizio sulla rispondenza): come un film vecchio rifatto con nuove tecnologie. E mi pare un’ulteriore buona cosa.
Anche la struttura è interessante tra rimandi al passato e l’io narrante al presente. Un pochino pastorale e un pochino se questo è un uomo.
Capisco bene il motivo per cui ha vinto il Campiello.
RESTA UN DUBBIO
Perché nel testo lo Zwiebach diventa “la” Zwiebach? Capisco che in italiano la fetta biscottata è femminile, ma di regola si parla dello zwieback in termini maschili.
PER CONCLUDERE
Un buon libro, una lettura arricchente, al di là della storia.
Un pensiero su “Un inno alla ribellione personale, sociale, idealistica…”