«In territorio selvaggio» di Laura Pugno

Un bel viaggio nei pensieri (e nel corpo) di Laura Pugno, la poetessa, la donna, la bambina, la timorata, la romanziera, la filosofa, la ricercatrice del confronto con il selvaggio. Da cui prende il titolo il libriccino pubblicato da Nottetempo: “In territorio selvaggio”, che ho appena finito di leggere. Un piccolo libro importante. Per me.
IL TESTO
Attraverso un dialogo interiore che si legge come un flusso di pensiero, l’autrice discute con sé stessa, o sarebbe meglio dire, si interroga circa la necessità della gente-lettrice di nutrirsi “solo” o prevalentemente di testi confortanti, di quelli che dovrebbero riequilibrare lo stato di felicità in un immaginario che faccia da contraltare a una realtà solitamente poco coccolante. Per sottolineare poi quanto la ricerca del “famigliare” (il corpo è casa), che potrebbe essere pensato come il ritorno al bambino felice, non si discosti troppo dalla compresenza del perturbante, cioè da ciò che proprio nell’origine di noi stessi percepivamo come spaventoso, come può esserlo per esempio l’abbandono. Per cui in noi vi è sia la culla sia il territorio selvaggio, quest’ultimo però troppo spesso pensato come qualcosa di esterno e pericoloso, come se la morte non facesse parte della vita mentre è un tutt’uno, selvaggio, s’è detto e dunque da non esplorare… ma poi Laura Pugno si spinge oltre e lascia intendere che quei singoli territori selvaggi in verità nel deserto del misconoscimento si uniscono in comunità tra loro, formando un grande territorio selvaggio (un Terzo paesaggio) che – forse – solo la buona letteratura ha la forza di camminare. E dove la stessa può di fatto trovare nutrimento e fornire risposte a chi tenta di non guardare, per fatica o paura. O almeno questo è ciò che ho inteso io.
OLTREILTESTO
Ho già detto in un precedente post quanto il selvaggio sia da me percepito come casa e dunque non pericoloso ma famigliare, anzi, essendomi noto anche accudente. Lo stesso vale nell’esplorare quello più interiore: un lavoro, una ricerca che non finisce mai. Ma starò nella logica del vissuto più comune, o normalizzato, e dirò che al di là del contenuto questa voce riflessiva riesce anche per chi è meno portato alla riflessione a lasciare dei segni, dei punti chiave, degli svelamenti più nitidi di altri, immagini chiare che evocano anche il non detto. Non è infatti un trattato letteral-filosofico – citazioni di Eraclito a parte come la dualità insita nella parola “arco” – che tenti di tirare le fila della ricerca letteraria e poetica, ma piuttosto un altro libro di poesia, della quale mi pare di cogliere il suo modo (il modo di Laura Pugno, anche se lei stessa afferma di non amare la poesia in prosa giacché cancella il bianco, ma c’è bianco e bianco, dico io…), e proprio il suo scritto imbianca tutto per fare emergere pezzi di immagini, fin quando non affiora qualcosa di più plastico e allora fa tornare la neve a imbiancare tutto. Fiocco dopo fiocco. Parola dopo parola. Che viene quasi da chiedersi perché, se non fosse che la risposta mi pare più che evidente: ogni viaggio nelle proprie riflessioni è un insieme di vuoti e innesti. E se non si vuole mettere le briglie al selvaggio, questo scalpiccio di frasi, che un po’ ti ondeggiano e un po’ ti disarcionano, è il risultato più vero.
“…e restano come frammenti, come statue in rovina, o case, qualcosa di bianco, o di pietra, che affiora da un paesaggio nuovamente ricoperto di vegetazione”. Così Laura Pugno descrive la poesia di Eliot, forse senza rendersi conto di aver mostrato i tratti della propria, del suo modo.
Da qui la mia riflessione generale: ma chi è davvero – da ultimo – a “fare” poesia o letteratura? Lo scrittore o il lettore?