Un disastro umano prodotto dalla cattiva comunicazione

«La mite» di Fëdor Dostoevskij

Mi viene da fare due considerazioni sul terzo testo che leggo di Dostojevski, e la prima la faccio a caldo quasi fuori contesto: non ho (avevo) ancora uno scrittore “preferito”, ma più leggo e più mi è chiaro che Dostojevski sta proprio nelle mie corde. Lui e Victor Hugo. E pure Friedrich Dürrenmatt. Che per me sono molto simili, con una lingua diversissima e sensibilità non del tutto aderenti l’un l’altra, ma hanno lo stesso tipo di occhio. Quello che si posa sulle cose umane. 
Ma veniamo al libro in questione: ho letto “La mite”.

TRAMA (con spoiler)
Si tratta di un lungo racconto che mette in scena l’io narrante di un uomo che si interroga (si fa per dire) sul proprio agire, per tentare di capire quanto è accaduto: non riesce infatti a spiegarsi il motivo per cui la giovane moglie aveva infine deciso di suicidarsi, peraltro davanti ai suoi occhi… e senza nemmeno preoccuparsi di lasciare un biglietto per scagionare i restanti!
Man mano che girano le pagine, si intuisce sempre più come quest’uomo abbia portato all’esaurimento la ragazzina; si è infatti maritata a sedici anni, con quest’uomo, proprietario di un banco di pegni, che è ultra quarantenne. Dettaglio abbastanza marginale ma che serve più che altro per capire quanta comprensione e quanto accudimento con buona probabilità necessitava ancora la giovane, che si ritrova invece catapultata in un mondo di silenzi e musi duri, di un adulto poco felice e per niente espansivo, per tacer della totale assenza di romanticismo.

OLTRELATRAMA
Ho cercato di capire che cosa davvero avrebbe portato all’esaurimento la giovane, e sono giunta alla conclusione che forse non si tratta dell’assenza di “amore”, perché per assurdo lui l’amava – a modo suo – la causa secondo me è invece tutta da attribuire alla cattiva comunicazione. Cioè quest’uomo non comunicava i suoi stati d’animo reali, i suoi veri pensieri, i suoi sentimenti, le sue paure, le sue incertezze, i suoi problemi,… niente, anzi, quando lo faceva, mandava con regolare spietatezza involontaria messaggi distorti, ambivalenti, addirittura contrari rispetto al pensiero originale, in parte si direbbe per difendersi da eventuali giudizi, ma soprattutto credendo quasi di far del bene. Quasi come se lei dovesse indovinare quel calore o buon proposito che stavano nascosti dietro un atteggiamento o un’osservazione gelida, interposti in modo educativo. Più volte ho pensato al classico: “ti ho dato una sberla per il tuo bene”. Il problema si intensifica quando restano solo sberle a dimostrare tanto bene…
Il racconto, in questo senso, mi pare proprio ben riuscito.

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