«Il Gattopardo» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

La prima descrizione dell’olimpo palermitano risuona come quella del portale della chiesa di Umberto Eco ne “Il nome della rosa”. È il primo pensiero che ho fatto dopo poche pagine de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, finito di leggere ieri. Un’impressione che ha trovato poi riscontri in tutto il romanzo, trasformandosi da esercizio positivo in un accumulo di parole noiose e dispersive.
LA TRAMA
Protagonista sono la Sicilia e la sua gente, da quella più contadina a quella aristocratica di cui maggiormente si parla in questo romanzo. Non la Sicilia di oggi (anche se mi pare continui a riverberare lo stesso spirito), ma quella tra il 1850 e il 1910. Una Sicilia descritta nei minimi dettagli. Molto paesaggio e tanta anima, orgoglio e passività. Una Sicilia che sembra lasciarsi attraversare dalla storia anche da quella con la S maiuscola, senza fare una piega. Dove conta più una settimana in villeggiatura che non la visita di un’autorità nordica. Una Sicilia che si fa abitare dai suoi figli gattopardeschi. Poi sì, si citano i Mille di Garibaldi, i regni in costruzione, storie di fascinazioni sensuali, approcci diplomatici, cene aristocratiche, salotti sontuosi, adattamenti storici… ma la Sicilia, fatta della sua gente, quella Sicilia come questa Sicilia resta sempre là, pur cambiando tutto, ogni cosa resta identica a prima.
Aggiungo una considerazione da elvetica ignara della reale portata del tema che sto per sollevare, e forse sono solo finte realtà, forme di pregiudizio involontario, di un cliché mentale. Ma mi è pure capitato di pensare, mentre leggevo, ai modi di relazionarsi tra le parti, tra quei capi di famiglia, e al regno, alla monarchia, ecco mi son parsi modi che ancora oggi non sono scomparsi, anzi mi sono detta che parrebbero in qualche modo essersi solo modernizzati nella mafia, nei cosa nostra, roba di famiglia, di amicizie e tradimenti e persone da controllare. Un decadimento risorto. Tutto cambia, lasciando ogni cosa com’era.
OLTRELATRAMA
Dicevo in apertura quanto mi sia piaciuta una delle prime descrizioni; non è l’unica, beninteso, eppure…
La maggior parte del testo è stato davvero un peso e ammetto per questo che mi ha annoiata un pochetto. È composto da tantissimo paesaggio, un sacco di descrizioni, milioni di milioni, storie di “guerre” che non conosco e che vengono solo accennate, per cui mi restano sullo sfondo scomparendo dietro i dettagli di ogni cosa che entra in scena, è tutto infiocchettato, e i personaggi sembrano comparire così raramente che poi li si confonde. Capisco la bravura dello scrittore. Scrive in modo così ottocentesco però che, sebbene sia nelle corde della narrazione storica, mi rende il tutto ancora più vecchio, invece di approfittarne per renderne una versione più fresca e fruibile. Forse la critica mia è condizionata dal fatto che non si tratta di un genere che amo, quello storico mi rende sempre un po’ indisposta per l’allure del linguaggio. Resta però, al di là del gusto, una considerazione oggettiva: ci sono davvero troppi dettagli che incasinano i meccanismi di immaginazione del lettore. Tocca seguire parola per parola per modificare le immagini che ci si crea già da soli, perché generalmente non coincidono mai in modo così minuzioso. Questo tipo di costrizione temo possa spesso far sentire i lettori con maggior velocità di immaginazione, degli ospiti inadeguati. La noia è una brutta bestia per chi legge. Per me questo tipo di pedante cura descrittiva viaggia alla stessa velocità lenta e morbosa di certi scritti detti “disturbanti” che si ostinano con ossessione a descrivere le minuzie di ogni azione banale o anfratto carnale e disgustoso. La noia.
Eppur tuttavia metto in salvo con un applauso tante sentenze non scontate, e una descrizione bellissima, cioè quella che si incontra quando, alle quattro di un pomeriggio, Don Fabrizio, il principe, incontra il piemontese Chevalley (là per invitarlo a diventare uno dei senatori del regno per conto del governo di Torino dopo l’unione della Sicilia al regno di Sardegna) e gli parla della Sicilia e dei siciliani: sono pagine eccezionali e misurate. Che riassumono tutto, senza una parola di troppo e manco una di meno. Un preciso e sentito e coinvolgente paragone della gente di Sicilia nata quasi dalla stessa terra e dai suoi venti e dalla sua siccità…
Faticherei non poco a rileggerlo tutto, non lo farei. Mi godrei solo le citazioni (qui sotto ne riporto solo poche).
Presto guarderò il film e proverò a dirne.
LE CITAZIONI
– “Santi di terz’ordine”
– “Che bella cosa la scienza quando non si mette in testa di attaccare la religione”
– “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”
– “Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.
Un pensiero su “L’eccesso descrittivo”