«Sostiene Pereira» di Antonio Tabucchi

Sarà Lisbona ad aver emotivamente modellato la penna di Tabucchi? Lisbona – pur non essendoci mai stata, ma ho visto «Lisbon story» di Wim Wenders – la percepisco proprio così, con quel clima lì, molto sospeso, un po’ onirico, impalpabile. Un immaginario, a dire il vero, che non mi fa simpatizzare con la malinconia che ne consegue, perché la riconosco. Come dire: è una parte di me che non amo.
Anche nel lungo racconto: «Sostiene Pereira», Tabucchi torna sui temi che già ho trovato in «Notturno indiano». Di quest’altro testo ho scritto un mese fa. Trovavo: “…bello il sistema di immagine legato alle ombre e alla ricerca della luce. Alla notte e ai risvegli faticosi. Alla morte e alla reincarnazione / resurrezione”. Dove morte e vita, non sono necessariamente quelle della carne, ma quelle della mente, in questo libro più ancora che in «Notturno indiano».
LA TRAMA
Del protagonista si sa sin dal titolo il cognome: Pereira. Il nome non conta. È un uomo, a detta dell’autore nella postfazione, che è esistito davvero, forse non la sua storia, ma lui sì. Vissuto, sovrappeso, vedovo. Un uomo rimasto incastrato nel suo stesso passato – mi vien da dire anche se non viene detto – dal giorno della morte di sua moglie. Da allora, è come se avesse rinunciato alla realtà, alla cronaca giornalistica di cui si occupava, cioè alla quotidianità, al tempo che trascorre modificando l’anatomia della terra e dei suoi abitanti, ha insomma spento il suo sguardo, e si è lasciato affondare nella sua malinconia, e nella cultura letteraria della quale si occupa in sostituzione della realtà. Realtà politica, prima ancora che sociale, che busserà alla sua porta – anche con violenza lungo l’intera narrazione, dato che ci troviamo nell’estate del 1938, e corrono i tempi del regime di Salazar – più e più volte. Fino a riuscire a tirarlo fuori dal lungo lutto, trascinandolo in un mondo che, alla fin fine, non si è certi valga la fatica di vivere. Anche se qualcuno morirà pur di difenderlo.
OLTRELATRAMA
M’è parso una sorta di «Antichi maestri» di Thomas Bernhard, dove, al posto della rabbia austriaca, ci si trova confrontati con la tristezza portoghese. Non prendetemi in parola. Non dico che sono uguali, per niente. Faccio per dire: che se da una parte lo spunto (la moglie deceduta, e la vedovanza come stato emotivo) mi pare stiano a far da evento scatenante del romanzato di questi due testi, allo stesso tempo prendono modi diversi di farsi leggere, totalmente diversi, forse opposti, come opposte sono le terre da cui provengono gli autori. Sarà, infatti, un pregiudizio sciocco, ma a me pare di riconoscere in questi due romanzi la temperatura della terra, del Paese in cui si trovano sia autori sia protagonisti. Da qui, l’incipit di questa mia noterella.
Davvero bello il tormentone “Sostiene Pereira”, che io avrei persino esagerato ancora di più (a volte mi mancava). Bello perché sembra fornire una cornice all’intera storia, racchiudendola nel contesto politico di quel tempo. Sostiene Pereira, sembra infatti detto da un inquisitore, che riporta la testimonianza di questo “signore” del quale non è certo di potersi fidare, non sa insomma se potergli credere, e questo rimescola molto l’intera narrazione.