
«La maschera di Flashover è personalizzabile (…) è la maschera di Hollywood per tutti. Uno stile di vita da raggiungere indebitandosi. Come il cugino padrone, l’incendiario.»
(così, Giorgio Falco, ospite del recente Festival Sconfinare di Bellinzona)
Ho parlato di Flahover. Incendio a Venezia di Falco e Ragucci (Einaudi), intervistando l’autore del testo sul settimanale «Azione» (per leggere l’articolo integrale, basta scrollare verso il basso, oppure seguire il link – non richiede iscrizioni perché è un settimanale d’approfondimento gratuito). (Ringrazio la redazione e in particolare Simona Sala per lo spazio concessomi).

La quarta fase è il «decadimento finale»
Com’è possibile raccontare, oggi, una storia partendo da un fatto di cronaca? Giorgio Falco, di recente ospite al Festival bellinzonese Sconfinare, ci parla di Flashover. Incendio a Venezia
Non è romanzo verità, non inchiesta giornalistica, e men che meno reportage narrativo, bensì è un «iconotesto». Parliamo di Flashover (Einaudi), libro di Giorgio Falco basato sull’incendio doloso del 1996 che vide andare in fiamme il Teatro La Fenice di Venezia. Lo scrittore lombardo è stato ospite della seconda edizione del Festival «Sconfinare» a Bellinzona. Iconotesto, si diceva, perché, così come in Condominio Oltremare (L’Orma editore), Falco ha adottato una forma ibrida che fa dialogare le sue parole con le fotografie di Sabrina Ragucci. E proprio sul rapporto tra diverse espressioni artistiche lo scrittore ha raccontato la sua visione durante l’incontro di sabato scorso.
Giorgio Falco, nel libro è citato Alberto Burri che utilizzava il fuoco per trasformare altro in opere d’arte. In che modo ha «bruciato» la materia della cronaca in Flashover?
L’ho fatto seguendo l’andamento di un incendio. Ogni incendio si divide in quattro fasi: ignizione, propagazione, flashover, decadimento finale. La terza fase dell’incendio è diventata anche il titolo dell’opera. Il flashover, nel gergo tecnico dei pompieri di tutto il mondo, indica lo sviluppo completo dell’incendio, quando la temperatura è altissima, uniforme, e non si verifica più il rapido aumento della fase di propagazione dell’incendio: durante il flashover tutti i singoli elementi bruciano all’unisono, il fuoco è ovunque, e quindi ogni cosa non si rivela più come appariva pochi minuti prima, non è più, per esempio, un tendone in fiamme: si rivela in quanto fuoco. Il flashover è «la distruzione portata da sé stesso, la distruzione di sé stesso». Il flashover è un momento labile di stabilità nel picco massimo di distruzione. Quindi, ho bruciato la materia della cronaca rispettandola.
Ha immaginato una forma antiromanzesca «iconica» e fortemente letteraria. Le forme esistenti non bastavano a dire quel che aveva da dire?
È così: non ho voluto usare niente di romanzesco. L’incipit – e la fine – hanno un andamento che potrebbe muoversi nella direzione del romanzo basato su fatti reali: definisco quelle parti «sconfinamento romanzesco», per dimostrare ciò che il libro avrebbe potuto essere, e invece, non è. Volevo scrivere questo libro da molti anni e non potevo accontentarmi di un romanzo verità che giocasse con la finzione, o peggio, con l’autofinzione.
Ho scritto un altro tipo di libro, che ponesse anche a me questioni più grandi: come è possibile raccontare, oggi, in modo nuovo, una storia partendo da un fatto di cronaca? Che cos’è un personaggio? Nel libro esistono due personaggi principali: Enrico Carella, l’incendiario; e poi il personaggio senza nome, mascherato, il personaggio che attraversa il libro nella serie visiva di Sabrina Ragucci. Ma Enrico Carella, nel libro diventa fin dall’inizio il cugino padrone, mentre suo cugino, Massimiliano Marchetti, diventa il cugino dipendente. È una scelta fondamentale, perché così li sottraggo alla catena della cronaca. Il cugino padrone, in minuscolo, non in maiuscolo. Quasi stessi narrando l’aquila reale, il falco pellegrino. Flashover non è il caso Carella o il caso Fenice. Flashover è una riflessione narrativa, saggistica e visiva sul passaggio dal Novecento al nostro contemporaneo, su tutto ciò che viviamo.
Ma quel che viviamo è l’era della «Tv del dolore» dove la drammatizzazione sembra inevitabile: la scelta di eludere la retorica sentimentalista è un ribellarsi alla falsa profondità, oppure la vuole sottolineare togliendo «emozioni» alla narrazione?
Sì, da molti anni siamo immersi in una specie di melassa che attecchisce ovunque, non soltanto in televisione. Questa melassa è pervasiva, riguarda tutto. A un certo punto, scrivo nel libro che alcune locuzioni sono ormai logore e inadatte a descriverci. «Sono profondamente commosso» non ha più senso. «Sono profondamente commosso in superficie» descrive meglio ciò che siamo diventati. Forse è un meccanismo di difesa, più che di menzogna o indifferenza. Comunque, preferisco usare uno stile in apparenza freddo, a maggior ragione perché il tema è il fuoco. È un calore che fa sentire le ossa, il tempo.
Che relazione rincorrono parole e foto? In che modo si contaminano? Quali sono i reciproci punti di forza espressivi?
Flashover è un fototesto. Secondo me e Sabrina Ragucci un fototesto è un fototesto se conserva: il ritmo delle parole, il ritmo delle immagini, il ritmo del rapporto tra questi due linguaggi, il montaggio. Altrimenti diventa un libro con all’interno alcune fotografie. A noi questo non interessa. O c’è un rapporto paritario, un’autonomia reciproca, una frizione da cui nasce qualcosa, oppure non credo che sia nemmeno necessario inserire immagini in un libro di narrativa. Flashover diventa esso stesso un flashover, la materia di cui tratta. E questo anche grazie al lavoro visivo. La presenza della serie in maschera, della parrucca, del mio corpo, aggiunge una nuova questione: infatti, dal punto di vista dell’incendio, la maschera funge da raffreddamento, è la quarta fase, quella del «decadimento finale»; ma dal punto di vista del libro, la maschera diventa il flashover del libro, distrugge la narrazione precedente.
Risalta la ricerca di linguaggi diversi: espressioni dialettali (che sono un «movimento intimo»), molte domande retoriche, parentesi con divagazioni del narratore che si rivolge a sé stesso, l’alfabeto della distruzione, la lingua delle grida che «lega il denaro ai gesti e alle parole assenti»…: sono questi i pezzi di verità bruciati? Qual è il loro ruolo? Sono funzionali, o rappresentativi di una poetica?
Ho usato linguaggi diversi. Quelli da lei citati, e poi dialoghi, monologhi saggistici sulla maschera, o le parti in cui parla una voce simile alla voce fuori campo di alcuni film, voce che interagisce con il lavoro visivo. Lo faccio sempre. Uso tutto. Ma quello che più conta, in un’opera come Flashover, è il lavoro di montaggio. Alfabeto della distruzione è il titolo del lavoro visivo di Sabrina Ragucci. Le sequenze sulla lingua delle grida si riallacciano, appunto, a ciò che dicevo all’inizio di questa intervista: Flashover è una riflessione, un’investigazione sul passaggio dal Novecento al nostro contemporaneo.
Non a caso, la lingua delle grida era il linguaggio utilizzato dagli agenti della Borsa di Milano durante le contrattazioni di compravendita, nel Novecento. La finanza aveva assorbito un linguaggio che aveva una base popolare, teatrale. C’era ancora bisogno dei corpi, del loro agitarsi al centro della sala. Poi, a metà degli anni Novanta, nello stesso periodo dell’incendio alla Fenice, siamo passati alle contrattazioni telematiche.
La maschera indossata nelle 74 fotografie di Ragucci è un’icona stereotipata del teatro, ma qui si ha quasi l’impressione che sia il «negativo vuoto» della maschera di Anonymous, cioè che rappresenti il «nemico capitalista» combattuto dagli anarchici di oggi. È una lettura plausibile?
Non direi un’icona stereotipata del teatro. È la maschera dei commerci globali, la maschera della finanza, dei flussi di denaro che impoveriscono il mondo. È la maschera che non ha una sua specificità. Non ha la caratterizzazione che ha la maschera di Anonymous. E poi, ecco, non riuscirei a indossare una maschera con il pizzetto. La maschera di Flashover è personalizzabile, ma l’abbiamo lasciata così com’era. È la maschera del «mezzo sorriso». In una delle prime immagini, il personaggio è sdraiato su un copriletto su cui sono impressi i volti di alcune star hollywoodiane: James Dean, Robert Redford, Nathalie Wood. Quell’immagine è una sorta di deposizione di Cristo, una deposizione laica, tanto più plausibile perché la maschera contiene «l’invincibile teschio». Proprio per questo motivo è, a maggior ragione, la maschera di Hollywood per tutti. Uno stile di vita da raggiungere indebitandosi. Come il cugino padrone, l’incendiario.
Flashover («Otto ore di fiamme, la stessa durata di una normale giornata di lavoro») è un ammonimento per dire che siamo giunti al massimo sviluppo sopportabile, e che da ora in poi sarà solo decadimento ed estinzione?
Non posso prevedere il futuro, posso solo guardare con attenzione ciò che è qui, adesso, nell’epoca in cui vivo. Anni fa ho visto una grande moria di pesci lungo dieci chilometri di costa, nel mar Adriatico. Pesci asfissiati dall’acqua troppo calda. Le persone reagivano con opportunismo, catturando i pesci agonizzanti, o rammarico per l’impossibilità di tuffarsi in acqua. Ruspe e camion hanno ripulito la spiaggia.
