«Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» di Carlo Emilio Gadda
Quale statura antignomica, ed eccelsa letterarietà volgare, esatta, alla romana, da cui il romanzesco per antonomasia.
E va ben!, lo so: scarno tentativo, il mio, di fare il verso a «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» di Carlo Emilio Gadda, cercando di nominare il giusto, nell’elogio mio del suo, come fa lui nelle cose della vita, delle storie. Torno in me: che gran bel romanzo!, dicevo. Strabordante di parole e ricolmo di immagini.
LA TRAMA
Sarebbe un giallo, ma chissenefrega del giallo. Echissenefrega se l’assassino non viene svelato. E di più ancora chissenefrega di trovarlo, noi lettori con le nostre teorie complottistiche e strategie dietrologiche. Conta che ci sta don Ciccio, all’anagrafe Francesco Ingravallo. Un investigatore platonicamente infatuato della Liliana, sì, la Balducci, che gliela sgozzano da lì a poco dopo l’avvio di un altro caso, per furto, costringendolo a farsi carico delle indagini, e indaga sì, come un segugio insegue le tracce senza alzare lo sguardo, coi pensieri che se ne vanno, perdendosi per troppa concentrazione e girando sul posto e a volte andando a sbattere contro una gallina o lasciandosi distrarre, pagine e pagine, dagli alluci illuminati dalle arti, ondeggiando sui suoni altalenanti di dialetti e modi di dire e speranze e disperazioni, e un sacco di vita e di silenzi e amori e complicità e lavori e conoscenze e favori e omertà e logiche contadine e pericoli di città e dubbi e certezze e solidarietà e diffidenza…
OLTRELATRAMA
Che cosa potrò mai dire di un libro già tanto studiato e criticato e decantato e sezionato ed esaminato e ragionato e…? Poco e niente, se non l’impressione mia. Cioè, sì, è risaputo e per chi non lo sapesse, la voce, la lingua di Gadda è tutto un foco d’artificio, uno schioppettare di termini e neologismi e lemmi arditi difficili da trovare nei dizionari ma riconducibili a etimologie che ne svelano tuttavia il significato, quasi a dire che nulla inventa tutto precisa. Leggerlo, si dice, è faticoso, figuriamoci per me che non sono una lettrice, ma ho trovato il modo: mi sono avvalsa della voce di Fabrizio Gifuni, per prendere il via, sentirne i suoni. Mica si capisce tutto, o forse sì ma solo se ci si sofferma, su certi vocaboli, spendendoci qualche mezz’ora. Ma non conta, conta l’insieme. Come davanti al trittico di Bosh, Il giardino delle delizie. Questa la mia impressione. Ecco, stare al cospetto di “Quer pasticciaccio…” è come lasciar correre lo sguardo su quel trittico pazzesco: stessa complessità, stessa sensazione che non ci sia un inizio e una fine, stessa circolarità, stessa profondità nei dettagli, stesse divagazioni, stessa originalità espressiva. Stare dietro a Ingravallo è come entrare nel quadro e seguire il pennello di Bosh, che a ogni passo si perde nei dettagli di altro, come se da un passo ne seguisse un altro per conseguenza più che per riflessione e il posto dove ti porta appartenesse a un’altra dimensione a un’altra realtà. Un’associazione di immagini, più che di idee, di fatti consequenziali, più che di trovate e pensate. E non gli basta passarci in mezzo, no, si ferma e ti mostra tutto con minuzia di dettagli, e mettendoci un colore e uno sguardo che paiono tutte immaginazioni nuove, quasi caricature, una parodia della vita. E delle sue tentazioni, pure qui, come nel giardino delle delizie, che stanno ad animare e a bruciare gli animi di ogni protagonista, ogni storia. E con tentazioni ci stanno le passioni della carne tanto quelle per il denaro. Che portano a niente. Sembra essere la morale del romanzo. Che portano a niente. Desideri quasi tutti disattesi, sono infatti quelli che si incontrano nelle pagine der pasticcciaccio. Se non tutti. Persino quello della giustizia viene disatteso. Come a dire che una cosa tira l’altra senza soluzioni. E io che non sopporto i gialli senza soluzione, qui davvero non m’è importato per niente. Mi è piaciuto un sacco, e non solo perché suona bene, o perché a tratti è divertentissimo e in altri punti è talmente malinconico e struggente da commuoverti, ma proprio per questo bagno di vita, di quotidianità, di pezzi di cose e particolari di immagini e slanci descrittivi e parole ma anche frasi intere dette diverse da come le sappiamo, tutte cose che ti restano attaccate. Come quando guardi per un po’ Il giardino di Bosh, smetti subito di chiederti “perché”. Così preso dal guardare “i tanti cosa”. Ogni domanda passa in secondo piano e le risposte possono anche non esserci.
CITAZIONI
- «Er sor Filippo, alto, scuro a soprabito, co la panza un po’ a pera e le spalle incartocchiate e un tantinello spioventi, di viso tra impaurito e malinconico, e al mezzo un nasone alla timoniera da prevosto pesce che doveva fare le gran trombe der Giudizio (…)»
- «…a delegato e segretario generale della confederazione dei soprammobili».