«L’ombra abitata» di Alberto Ongaro

Ho letto «L’ombra abitata» di Alberto Ongaro (versione e-Book di 497 pagine).
Devo dirlo. Stavo per scrivere un commento non del tutto positivo. Certo, la penna scorre fluidamente. L’immaginario è ricco anche se inizialmente è un po’ ricoperto da un romanticismo postmoderno che mette in risalto il lato sentimentale delle cose, ma in modo direi comunque del tutto sobrio: tra queste cose, la fotografia messa in mostra in un’esposizione, nella quale il protagonista è convinto di aver intravisto una sua ex, parte di una giovinezza mai dimenticata e vissuta in quella Parigi del primo dopoguerra; ma anche le vie, i negozi, il barbiere, l’albergo, la custodia di uno strumento musicale, gli interni di una camera, una singolare scultura di gesso che diventa la tangibilità del ricordo che il protagonista aveva di sé…
Ben riuscita è di certo la lady metropolitana che usa e getta gli uomini, ma che pare sempre nascondere una verità. Eppure per tutta la prima parte, va detto, il ritmo è assonnato, o così l’ho percepito io: quasi come se per viaggiare nei ricordi occorra rallentare di molto il passo.
E a peggiorare la situazione sono molte digressioni – per quanto mi riguarda – se non inutili, di certo eccessivamente esplorate, per non dire esplose. Come la descrizione di interni di negozi che si prendono mezze pagine al centro di un’azione; o come la spiega sulla situazione famigliare di gente del passato che poco o niente c’entrano con la storia che stiamo leggendo; e via discorrendo. Ecco è questo ciò che per tre quinti del libro mi ha maggiormente “appesantita”, ché non vorrei usare il termine annoiato. Diciamo che mi ha spesso distratta, aumentando la lentezza dell’andatura.
Capisco che forse l’autore mirava ad abituare il lettore alla gestione dei vari salti temporali poche volte segnalati in modo chiaro, ma garantisco che la difficoltà iniziale (praticamente inesistente, perché funziona subito in modo chiaro) per gli spostamenti dall’oggi all’altro ieri e viceversa non è nulla rispetto alla difficoltà di ricordare quale fosse l’azione in corso prima di queste citate digressioni.
Eppure…
Eppure a tre quinti dell’ultimo (credo, dopo controllo) libro di Ongaro, un primo colpo di scena risveglia il lettore come se qualcuno gli avesse dato un calcio alla gamba della sedia su cui si stava dondolando. Da qui in poi parte l’Onagro che mi aspettavo. L’Ongaro che sapevo essere stato amico e collaboratore di Hugo Pratt, l’Onagro viaggiatore, l’Onagro delle avventure. Che non conoscevo, ma per l’appunto desideravo incontrare. E alla fine è arrivato e – non me ne voglia chi ci capisce più di me – è stato come vedere la trasformazione del personaggio che, dismessi gli abiti del cittadino, si è infilato in quelli di Corto Maltese. E così, senza preavviso, dalle ambientazioni nordiche di una Londra efficiente e una Parigi ingrigita dalla vita, nell’immaginario del lettore si palesa il marinaio girovago (e marinaio, davvero lo è stato il protagonista), che parte per paesi esotici, finendo tra braccia intriganti, scoprendo gli uomini leopardo e facendo incursioni nella giungla: l’avventura che diventa il caso o il caso che diventa avventura e che si prende possesso di un uomo che si lascia trapassare dallo stesso senza fare smorfie. Magari semmai si sarà fumato anche lui – come faceva Corto – una sigaretta, di tanto in tanto. Per non parlare di quella spruzzata di esoterismo che già all’inizio affiora timido, (basti pensare al lavoro di antiquariato e commercio in maschere esotiche) ma poi prende sempre più consistenza grazie alla suggestione del caso (di nuovo, ché viene chiamato in causa sempre più spesso), o alle visioni di uno stregone e via rotolando.
Ed è così che tutto prende a scorrere sempre più in fretta, arrivando alla velocità giusta senza fiatone, con una serie di colpi di scena che si intensificano nelle ultime cinquanta pagine. E se prima si aveva come l’impressione che sarebbe bastata una distanza temporale più breve anche di poco, arrivare prima della morte dell’albergatore, o della chiusura di un negozio o della trasformazione di un luogo, per riuscire a sfiorare qualche verità sempre sfuggente, be’, alla fine, almeno io, non sono rimasta delusa. Anzi: le ultime cento pagine valgono e superano e ripagano decisamente la fatica delle prime quattrocento. C’è solo un nodo che non credo sia stato davvero sciolto, ma, se devo dirla tutta, non mi importa. Va benissimo così.