«Il culto dei morti nell’Italia contemporanea» di Giulio Mozzi

Ho letto questo libro. E mi è piaciuto parecchio: l’ho trovato talmente limpido, penetrante, rispettoso della morte e della vita, e poetico e provocatorio d’apparirmi come un concentrato di dolore e rinascita e di trasformazione e ribaltamenti, con qualche bella stoccata ironica.
Ho trovato frastornante la terza parte, soprattutto alcuni testi, o meglio quasi tutti: in primis il pezzo intitolato «Uccisioni rituali di animali, e altri riti».
Molto stranianti le pagine dedicate al «nome della persona amata». Ti portano completamente fuori e poi ti rigettano nella realtà con tutta un’altra percezione sull’importanza della persona che hai al tuo fianco. Il fatto di suggerire la dimensione del teatro che prevede il coinvolgimento di uno spettatore ignaro, nel quale il lettore si identifica per forza, crea degli strappi interni ogni volta che il narratore lo costringe a desiderare qualcosa di sempre più grave.
Ho letto molte volte la piccola danza macabra e ogni volta mi ci sento sempre più a mio agio: è come riconoscere il proprio posto, è come «tornare a casa» perché quando uno conosce le regole del gioco, quando il narratore mi mostra quel che vedo di solito io in certe situazioni che ti fanno diventare quasi invisibile agli altri, quando il tempo degli altri rallenta al di qua, sebbene al di là, in quel mondo ritenuto reale, in verità sei tu a essere fermo immobile e gli altri a darsi da fare, ecco, a me sembra di poter tornare ad avere il controllo.
Non mi sembra invece di avere ancora trovato la chiave d’accesso per godere dell’ottava parte. Leggo. Solo in parte capisco. Non sento. Tranne la sesta e la quinta sezione di questo frammento del libro. Queste sì. Anche se sono rimasta a penzolare davanti alla frase «i suoi occhi di cerbiatto» in riferimento a dio.
Ho condiviso molto anche il capitolo IX, un concentrato di quel che penso dell’organizzazione dei funerali.
Credo che presto lo riprenderò in mano per una rilettura.