«Storia di due donne e di uno specchio» di Edoardo Zambelli

«- Perché non provi a immaginarlo?
– Perché se lo immagino poi diventa reale»
È questa una delle citazioni, secondo me, più rappresentative del libro che ho appena finito di leggere. Uh! Quante cose avrei da dire sul nuovo romanzo di Edoardo Zambelli intitolato «Storia di due donne e di uno specchio» (Laurana Editore, 2018). Ci proverò, tralasciando comunque molto altro, purtroppo.
LA PREMESSA
A chi è capitato di leggere qualche mia nota, sa che ho la necessità spesso di capire ciò che leggo o vedo. A volte non capisco e basta. Altre volte capisco quello che voglio io, e tanto mi basta. In questo caso non ho capito “l’opera”, ma ho indagato molte possibilità di comprensione che l’opera apre, e forse non basta. Alla fine sono percettivamente tutte sbagliate e intuitivamente tutte giuste. Perché è possibile solo formulare ipotesi e non affermazioni.
Un po’ come capita con certe poesie in un certo senso ermetiche senza necessariamente rientrare in quella corrente. Penso ad esempio alle opere di Laura Pugno.
LA TRAMA
Vorrei dire che non c’è. Forse davvero non c’è. Alla fine la “comprensione” parte proprio dalla trama, come primo livello di lettura, e se affermo di non aver capito, significa che non mi è chiara, questa trama. Eppure Zambelli riesce a darti l’idea che ci sia, lasciandoti però allo stesso tempo quella sensazione di non compiutezza. Strutturalmente racconta le storie di stessi personaggi (stessi perché si chiamano allo stesso modo), e in particolare di Alessandra e di Marta, che si riflettono in maniera però “distorta” a seconda del punto di vista, in parti diverse; talmente distorto, è il riflesso, da non tanto capovolgere ma piuttosto stravolgerne i rapporti di relazione e quindi anche i dati anagrafici dei vari protagonisti; se per ragioni di metafora o solo immaginativi, non è dato a sapere, come molte altre cose. La fa comunque facile, la bandella che si trova sul risvolto di copertina che vorrebbe farci credere a un qualcosa di più lineare, meno astratto e poco illusorio. Io non ve la riporto perché è roba (fatta bene, eh) che trovate comunque su tutti i portali che mettono in vendita il libro.
OLTRELATRAMA
E qui si fa ardua.
Comincio dalla copertina disegnata da Patrizia Mastrapasqua che non conosco per cui non ho idea se lei si sia ispirata o no al noto quadro di René Magritte, “La riproduzione vietata”, o se semplicemente abbia colto la seguente citazione tratta da pagina 26:
«Io sono in bagno – il bagno davanti alla mia stanza -, nuda
davanti allo specchio, e penso: questo corpo è il mio corpo.
Non lo era fino a ieri, adesso lo è. Il mio corpo non l’ho
portato con me a Bari, l’ho lasciato qui, in questa casa,
perché era un peso che non volevo, uno dei tanti, ma solo
ora me ne rendo conto.»


Storia di due donne e di uno specchio
Resta l’evidenza che si tratta praticamente di un perfetto (o quasi) rispecchiamento “distorto”: al posto di un uomo, c’è una donna, al posto di essere vestita è nuda, e invece di guardare a destra guarda a sinistra, ma quel che conta è proprio lo specchio che in entrambi i casi riflette il doppio, e non il volto: tutto corpo, niente anima (se vogliamo prendere per buono quanto diceva Hegel: “Il volto è lo specchio dell’anima”).
Estratto dal libro: «Poi dal comodino prende il libro (…).
La foto di copertina ritrae una donna di spalle (…).
Il titolo è Sonno profondo (…) A Marta questa copertina
piace, le pare che dica anche qualcosa di lei. Si riconosce
nella donna di spalle.»
I libri di Edoardo Zambelli – se penso a quanto lessi a suo tempo ciò che venne detto del primo romanzo: L’antagonista – sono spesso definiti di realismo magico, io preferisco restare a crogiolarmi nel buon vecchio surrealismo, perché più che di magico qui c’è mistero, illusione, enigmi non svelati, ma soprattutto mondi surreali, con situazioni talmente artificiose da spaesare il lettore, più che incantarlo (cosa che mi pare sia qualità piuttosto della magia).
C’è anche un altro quadro sempre di Magritte che sia libro sia copertina mi hanno ricordato, e fa parte dello stesso “ciclo” – se così vogliamo dire. Parlo del bellissimo dipinto intitolato “Le relazioni pericolose”, che se a questo Zambelli si fosse ispirato, non mi troverei per niente sorpresa.

Estratto dal libro: «…il fitto pulviscolo che vi si agita
dentro, e penso che potrei dissolvermi, adesso, diventare
pulviscolo anche io. Questo pensiero mi spaventa.
Cerco la mano di Marta, la stringo, e avverto come
una lenta messa a fuoco, mi vedo quasi da fuori, vedo
le cose che riprendono consistenza, e mi sento di nuovo
parte della realtà».
E dunque?
Presi titolo e copertina mi pare chiaro di poter dire che il cosiddetto “percorso di senso” suggerito non sia tanto legato alla narrazione in sé quanto all’indagine del doppio, dell’identità di ognuno di noi, al modo in cui ci autorappresentiamo individualmente nella realtà. Non a caso le due parti vengono narrate da un io interno, uno più consapevole (la prima parte) e l’altro totalmente disturbato (la seconda), tanto da lasciarsi cogliere dalla dimenticanza, dalla rimozione e da un immaginario che si confonde con la realtà stessa creando qualcosa di sovversivo, anticonvenzionale e dunque perturbante.
Estratto dal libro: «…ho la sensazione che tutto attorno
a me stia scivolando, che la mia vita stia subendo
un lento ma inarrestabile smembramento».
Così nel libro si assiste allo sdoppiamento dei personaggi che si rispecchiano in una realtà parallela, immaginativa? Onirica? (Una voce fuori campo verso la fine garantisce di no, quasi a voler smentire quel che sarebbe più facile credere, per costringere il lettore a non accontentarsi della soluzione più facile) Temporale? Fisiologica? Psicologica? Una piega nel mondo? O semplicemente una realtà parallela “possibile”. Ma perché? Perché – generalmente – smontare è analizzare. Perché è ovvio che – come per tanti se non per tutti – vi sia qualcosa di non detto e doloroso (nella fattispecie, così come Magritte perse la madre, anche qui si intuisce che uno dei nodi narrativi principali, sebbene resti molto sullo sfondo, è il rapporto madre-figlia), che da una parte si manifesta con immaginazioni sostitutive, e altre con una sorta di somatizzazione, come la macchia, un neo “vivo” che, a un certo punto del libro, la protagonista del momento tocca affermando: «Mi sembra di toccare la superficie del mio cervello». Una macchia che c’è e poi non c’è, o è più grande o diversa e persino altrove, come sul soffitto di una camera.
Ed è così che la realtà si tramuta, grazie all’immaginazione, in verità altre. Ciò che nella vita reale viene rimosso, assume altrove (e non lo dico a caso: v. la casa) una forma diversa, che solo l’arte (come la scrittura, o la pittura, eccetera) ha il potere (qui, sì, un po’ magico) di rappresentare, se non davvero svelare.
Perché alla fine è questo il riflesso proposto al contrario, una copia falsata della realtà, attraverso una frattura della stessa, come può esserlo una rimozione.
Estratto: «C’è una foto, strappata, ne manca tutto il lato
destro. In ciò che ne resta si vede Marta, giovane».
«Non ricordo nemmeno quando e dove è stata scattata,
né da chi».
MA C’È DELL’ALTRO
Abbiamo fatto un facile confronto tra l’opera di Zambelli e quella di Magritte, per quello che concerne il doppio della psiche umana, o dell’anima (per semplificare). Ma Zambelli ci mette qualcosa in più: una spruzzatina di Maurits Cornelis Escher. E dei suoi specchi magici che riescono a trasformare i luoghi in non-luoghi o, peggio ancora, in luoghi altri.
«Ricordo una casa» (…) «Conosco la casa di cui sta parlando
perché l’ho vista molte volte, in sogno».
A differenza di Magritte, cominciamo a dire che Zambelli tende a riempire la scena di dettagli che un poco deviano la nostra attenzione aumentando quindi quello straniamento di cui parlavamo sopra, e lo fa attraverso gli spazi rasentando quasi, a tratti, quella nota scrittura ossessiva che si sofferma su ogni dettaglio insignificante per la storia – se di storie stessimo parlando.
La distorsione che agisce Zambelli non è però spinta sino a rapportarsi con le note geometrie impossibili di Esher, ma semplicemente crea un alternativo mondo fisico reale, arricchendolo di immaginazioni surreali. Come potrebbe essere la riuscitissima comparsa della vecchia che potremmo definire custode della prigione, la prigione dell’amore estremo; lei a rappresentare il diavolo nelle vesti della nonna-strega, quella della tentazione, della mela rossa, della casa incantata. E infatti durante la prima visita ci ritroviamo davanti a: «Una grossa pentola (che) cuoce a fuoco basso su un fornello». La «casa» diventa qui il luogo dell’imprevedibilità, dove la struttura bidimensionale di una realtà possibile su carta, viene sfondata da schermi e altri tipi di rispecchiamenti interni, forzandone la distorsione. Come se ogni volta che Marta varcasse quella porta venisse inghiottita da un altro mondo, come capita ai lucertoloni dell’opera Reptiles (1943) di Escher, uno dei suoi primi lavori surrealistici.
Mondi paralleli sempre pericolosi. Tanto che, a ben guardare l’illustrazione in bianco e nero, ci si rende conto che incastrati nel foglio vi sono più coccodrilli di quelli che riescono a riemergere. È facile perdersi nella propria mente, nelle proprie follie, nelle proprie immaginazioni, senza più distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. E mi fermo qui.

Abbiamo parlato di luoghi, e i luoghi, per sua stessa ammissione, sono qualcosa per Zambelli di molto importante, forse più dei personaggi che li abitano, tanto che parte da questi per scrivere poi il resto che viene da sé. O così afferma. Chi prova ad andare oltre ponendo domande che tendono a sondare apparentemente motivi più profondi, si troverà infatti deluso: Edoardo è bravissimo a rimanere nel suo mondo rispondendo in modi diversi sempre la stessa cosa, cioè affermando che fa quel che fa quasi come se lo stesse facendo per caso. Gli vien da fare così, pare essere la conclusione di ogni risposta. A volte cita i suoi maestri, primo fra tutti Onagro, ma non ci aiuta davvero a capire. E la cosa per una volta non mi disturba. Perché non importa se sia o no davvero come dice, oppure se lui stesso rifletta solo la sua schiena, come se fosse l’unica cosa che ha, e che può e riesce a concederci; come riflesso dell’autore che è. Non conta perché alla fine, come per i lavori di Magritte, il vero protagonista è chi guarda, e in questo caso è il lettore che deve metterci del suo.
DI MIO, PERSONALE
Non voglio farla più lunga di quanto già fatto. Lessi la prima stesura di questo libro un paio di anni fa. Nel frattempo Edoardo l’ha modificato. Dice: molto. Praticamente, un altro libro. L’ho riletto e sono rimasta sconvolta. Per quanto lui ci abbia lavorato linguisticamente e strutturalmente – e spero che ora non caschi dalla sedia – a me pare di aver letto proprio lo stesso libro; le immagini che ho trovato sono esattamente come me le ricordavo. E questo mi fa riflettere. Possiamo cambiare molto, esteticamente, fisicamente, anche un po’ mentalmente ma quel che siamo, la nostra natura vera, resta invariabile per sempre, forse.
Per descrivere il mio sentimento ultimo in merito a questo libro utilizzerò una citazione tratta dallo stesso: «Se c’è una verità, non è per me, che delle loro vite sono (stata) un’abitante temporanea, un’intrusa». Io al massimo ho trovato le mie, di verità. A voi trovare le vostre.