«Notti bianche» di Fëdor Dostoevskij

Cosa non può capitare in quattro giorni a un sognatore?
Quanta tristezza e incantata bellezza ho trovato nelle pagine delle “Notti bianche” di Fëdor Dostoevskij. Non meno di quante ne ho trovate nella “Morte a Venezia” di Thomas Mann.
TRAMA
C’è quest’uomo che si dice sognatore. E poi c’è Nasten’ka, Nasten’ka, Nasten’ka. La bella Nasten’ka. Sullo sfondo, Pietroburgo di notte. Il suo ponte, la sua gente che se ne va verso le dacia (le case di campagna). La solitudine. Le case con cui il nostro uomo interagisce salutandole durante le sue passeggiate. Un uomo che si basta o a cui bastano i suoi pensieri il suo mondo parallelo dove vi si perde. Un mondo che pare esistere solo nella notte. Un mondo che viene sconvolto dall’incontro con la bella e triste Nasten’ka, cenerentola russa che al sorgere del sole torna alla realtà. Durerà in tutto quattro notti bianche e una mattina. Faranno conoscenza. Si mentiranno. Pronunceranno promesse. Si illuderanno. Si faranno anche del male senza volerlo. E tutto sarà avvolto da un’estasi emotiva che solo quel passionale di Dostoevskij…
Ma soprattutto c’è questa riflessione interiore del narratore che assomiglia non so perché a quella costante che si trova nella morte a Venezia. Una voce che riscalda e avvolge anche se intrisa di sofferenza, di quella controllata, mite, che non si dice se non sottovoce tra sé.
OLTRELATRAMA
Come già anticipato ho avuto la sensazione di ritrovarmi per le mani un progenitore de La morte a Venezia. Stessa densità di atmosfera, stessa intensità di solitudine, stessa rassegnata disperazione, stesso amore impossibile. (Circa, eh).
In somma è di più facile comprensione perché le riflessioni interiori del protagonista sono meno elucubranti e più lineari. Inoltre è più breve (è un racconto più che un romanzo) ma lo struggimento è consumato alla stessa maniera: desiderio, tentativo di avvicinamento e poi la consapevolezza della fine, di una fine.
L’autore ridà grande prova di essere un esperto esploratore dei sentimenti persino in questo racconto che mette in scena un “incendio” che ha quasi dell’incredibile, eppure riesce a renderlo più che accettabile, riesce a farmi dire come lettore, al diavolo la realtà, mi piacciono i matti!
Sulla scrittura annoto solo la bravura di mostrare la solitudine attraverso la descrizione del paesaggio notturno e degli incontri che il protagonista fa, dove pur essendoci uno sguardo verso l’altro, l’altro non risponde mai, perché distratto; e arriva persino a far parlare i muri, meglio degli uomini.
CITAZIONE
“Non ho una storia”
“E come avete fatto a vivere senza una storia?”
“Ho vissuto così (…) per conto mio, cioè da solo”
Un pensiero su “Pietroburgo come Venezia”