«Il delirio del particolare» di Vitaliano Trevisan

Si intitola «Il delirio del particolare» (recitazione da camera / ein kammerspiel), ma poteva anche intitolarsi «Frammenti di un discorso funebre» che pure mi piace (da pag. 71): «Il frammento – / – che ci rimanda sempre a un tutto irrimediabilmente – / – perduto – / – defunto – / – irrecuperabile» – dice Bernardi, lo storico dell’architettura che visita, come fosse un’opera d’arte, la casa della protagonista, la vedova, un’anziana signora tornata dopo anni nella dimora coniugale abbandonata alla morte del marito.
Parlo dell’ultimo libro di Vitaliano Trevisan, pubblicato da Oligo Editore. È una pièce teatrale. Ma anche un quadro. Un Tàpies (tanto per pescare termini trovati in queste pagine). Un pezzo di qualcosa che morendo si impregna di vita, o il contrario, che impregnandosi di vita, muore; fate voi.
Così il testo, così l’arte del personaggio che non c’è, l’architetto che non era architetto, l’uomo che ha lasciato molti segni a parlare per lui. L’innominato, che non serve essere nominato, nemmeno per una come me che ne ignorava l’esistenza. S’allude a Carlo Scarpa. Con questo libro, ho imparato un po’ a conoscerlo, ma anche senza sapere il suo nome, mi sarebbe rimasta la conoscenza attraverso le sue opere, che bene vengono descritte: più superflue che necessarie, trappole estetiche, monumenti immobili, strutture sacre anti-quotidianità, tombe anche quando non erano pensate per essere tombe, cose da guardare più che da vivere, semmai da morirci.«Malinconia e ironia insieme», così vengono descritte, le opere dell’architetto non architetto, così si può descrivere quest’opera teatrale, e ci metterei anche una spolverata di erotismo giocoso, come il testo di pagina 69, che pare prestare la penna al doppiosenso e a me un sorriso l’ha strappato.
Bello anche il personaggio del badante, il Cecchin, una specie di «diario parlante» più che soggetto «pensante».
E no, non mi permetterei mai di cercare di fare quella colta che – leggendolo nella bandella – si potrebbe mettere a parlare di parallelismi con il teatro di Strindberg, che manco so chi è o chi era. No. Al massimo posso dire quello che rimane a me, oltre alla scoperta di Scarpa, oltre alla bellezza della sintesi, oltre la soddisfazione di aver saputo leggere la scrittura teatrale di Trevisan (che da poco mi ha insegnato l’importanza delle pause e dei silenzi), ecco oltre a queste cose, a me pare che sia riuscito a rendere visibile un qualcosa che di questi tempi è molto di moda, ma dandogli il giusto valore. Non che sia stato nelle sue intenzioni, non dico quello che ha voluto dire o fare lui, dico quello che è entrato in me, o parte di.
(Spero di riuscire a spiegarmi, ma per capire quel che dico semmai leggetevi il libro che magari vi arriva la stessa percezione). Da diversi anni c’è una specie di adulazione della decadenza. Molti si affacciano su un luogo sfatto, un paesaggio diroccato, città vecchie o morte, siti abbracciati da grovigli di piante selvagge, monumenti griffati da spray, pareti scolorite… e, per una forma di moda – così appare a me – si esaltano esclamando: ah, che bello! Venezia, città d’origine di Carlo Scarpa (guarda caso), ne è la massima prova. È decadente, i canali a volte puzzano di fogna, il sole rimbalza sulla pietra delle case e ti soffoca, e questa è la parte vera, poi ci sono i gondolieri che sembrano finti personaggi che recitano la parte, i negozietti hanno perlopiù maschere di plastica, le pizzerie vendono la variante con l’ananas sulla mozzarella. E per i turisti tutto è bello allo stesso modo, come fosse un monumento “fermo”, sempre uguale, che non invecchia, come se Venezia era uguale cinquecento anni or sono.
Non dico che “sbaglino” a priori, eh, è bellissima la decadenza, ma solo quella vera, e solo perché a far morire le cose, e anche le persone, è la vita, solo perché vivono e sono vissute. Secondo me. La prova di questa mia percezione sta nel fatto che il vintage sia diventato uno stile «moderno», ovvero, non si compera davvero il vintage (che sarebbe impregnato di vita), ma il mobile prodotto in serie che mostra scrostature o danni visibili così da «sembrare» antico. Ecco quello che arriva a me: da una parte l’assurdità della mancanza di possibilità di vivere un’opera (in fondo è questo ciò che lamenta la vedova), dall’altra il tempo che a modo suo la fa comunque vivere. C’è un passaggio che passa via (infatti non l’ho sottolineato), ma che è quello che mi ha colpita di più (infatti mi è rimasto nella testa): era una cosa che infastidiva l’architetto che non era un architetto, il fatto che l’intonaco di una cappella si era rovinato, mentre in origine doveva essere lucido, «un’eleganza frigida – dice la vedova – molto giapponese – / – in effetti». Ecco questo passaggio per me contiene il senso: l’immobilità non è vita, la vita ti rovina, la rovina è “bella” perché indica la quantità di “vita” che è stata vissuta.
Perché mi piace dunque «Frammenti di un discorso funebre»? Perché un discorso funebre, di solito, parla della vita… Questo libro parla anche di questo. E forse è questo il motivo per cui subisco un certo fascino dei cimiteri, soprattutto quelli monumentali. Forse.
CITAZIONE
«Da un certo punto in poi
si esiste solo perché non si è ancora dimenticato
tutto»
E grazie mille a chi mi ha fatto questo bel dono.