«Notre-Dame de Paris» di Victor Hugo

Amo Hugo. Ho amato «I miserabili», e ho amato «L’ultimo giorno di un condannato a morte», che di fiabesco, l’ultimo non ha nulla, mentre ce n’è di più nei miserabili. E ora ho apprezzato anche la lettura di «Notre-Dame de Paris». E anche in questo romanzo torna prepotente e presente il tema della condanna a morte. In tutti e tre i testi. Gira e rigira, cambiano totalmente le storie, ma Hugo parla “sempre” (almeno in questi che ho letto) di Parigi e della ghigliottina, del patibolo, della pena capitale, della condanna che avviene sia da parte del popolo sia da un’autorità indegna, della tortura per incentivare le confessioni, e di ingiustizie varie. E in due casi, ha inserito questo male in un contesto di amore quasi fiabesco. Sofferto, sempre, ma allo stesso tempo «puro». E, niente, sento stima. Per la perseveranza nel piegare la sua scrittura che diventa ogni volta un manifesto contro la pena di morte.
LA TRAMA
Chi non la conosce? Disney l’ha riproposta con tanta forza che è entrata nell’immaginario dei più: un ecclesiastico arrivista, alla fine del quattrocento dell’anno mille, salva un bambino deforme, per farsi applaudire e attirare per la sua opera buona le grazie dei suoi superiori. Il bambino, che era stato scambiato con un’adorata giovincella e poi abbandonato, crescerà tra le campane della cattedrale, diventando oltre che deforme anche sordo. La bambina crescerà invece con gli zingari e diventerà la più bella del reame della strada. L’ecclesiastico si innamora di lei, ma pure Quasimodo il Gobbo, così come tutti gli uomini di Parigi, sia quelli che sdegnano il suo statuto sociale, sia quelli della bettola della Corte dei miracoli. Lei si innamora di un capitano fedifrago che fa lo stronzo, il pretuncolo arrivato ai piani alti fa un casino pazzesco, lei viene accusata del casino fatto dall’uomo di chiesa, ci sarà un processo, e, via raccontando. Quasimodo cerca pure di salvarla dalla forca, ma…
OLTRELATRAMA
Ho cercato per tutto il tempo di capire come mi sarei immaginata il Quasimodo descritto da Hugo, ma anche tutto il resto, se non avessi in mente l’immagine disneyana, perché ci ho provato, ma anche prefigurandomi ogni dettaglio descritto, mi veniva solo da pensare al gobbo in cartone animato come se fosse di carne e ossa. E pure lei, l’Esmeralda, uguale uguale, e pure le scene, e il “rapimento” in chiesa, e da una parte penso cavoli quei disegnatori sono stati incredibilmente fedeli, e io che pensavo fossero scene pompate per essere rese più avventurose o disneyane, dall’altra mi dico che quell’immaginario si è così tanto incistato nel mio cervello (e, attenzione: NON ho mai visto il cartoni animato per intero ma solo passaggi obbligati che la vita ti propone) che ormai non ho più la possibilità di avere una mia immaginazione in merito. Anche se… Anche se in verità, il libro è parecchio più crudo, e quella leggerezza disneyana si sgretola pagina dopo pagine appesantendo lo stomaco di chi legge. Così l’amore viene portato al patibolo da viltà, gelosie, opportunismi, povertà, miseria, tutti giudici e boia allo stesso tempo.

CITAZIONE
«A sedici anni, volevo trovare un mestiere. Da allora ho provato di tutto. Mi sono fatto soldato, ma non ero abbastanza coraggioso. Mi sono fatto monaco, ma non ero abbastanza devoto. E poi bevo male. Dalla disperazione, entrai come apprendista dai carpentieri della grande scure, ma non ero abbastanza forte. Avevo più attitudine a fare il maestro di scuola; è vero che non sapevo leggere, ma questa non è una ragione valida. Mi resi conto dopo un po’ di tempo che mi mancava qualcosa per tutto; e vedendo che non ero buono a niente, mi feci spontaneamente poeta e compositore di ritmi. È un mestiere che si può sempre fare quando si è vagabondi, ed è meglio che rubare, come mi consigliavano certi furfanti miei amici». (così un personaggio dice di sé, mentre il narratore di Hugo lo chiamerà «filosofo»)