«I miserabili» di Victor Hugo

Finite le ultime pagine, prendo una boccata d’ossigeno e provo a scrivere qualcosa di questo romanzo che è piuttosto un libro, e di cui hanno di certo già detto tutto.
So ad esempio che dovrei dire che è un “romanzo storico”, un affresco di Parigi degli anni della prima metà dell’Ottocento, e più in generale di un ventennio di guerre napoleoniche, sommosse e rivoluzioni civili della Francia, e invece dico che è il più gran bel libro d’amore mai letto (tanto che non vorrei leggerne di altri così). Anzi più che d’amore, sull’amore, di quell’amore che si può definire più divino e paterno e materno che non erotico, ma pur sempre amore, anzi Amore. Al quale fa da contraltare, sì, la guerra, la rivoluzione, l’egoismo, sì, anche la miseria, una certa crudeltà, il vizio e l’inganno, insomma, la vita, compresa quella dei singoli “contro” i sistemi, veri generatori di Miserabili. L’amore divino dell’uomo, ma anche quello più alto, che si manifesta attraverso la provvidenza, vera protagonista, quasi prima ancora dell’amore stesso. Sebbene in tutto il libro
– mi pare – essa venga assegnata a dei diavoli. Più miserabili dei miserabili, tranne in un caso: Mabeuf, il vecchio bibliofilo in rovina.
Molti avranno capito che parlo del capolavoro di 1529 pagine di Victor Hugo intitolato “I Miserabili” (in fondo alla scheda riporto anche una nota su “L’ultimo giorno di un condannato a morte” che nei Miserabili viene pure autocitato dall’autore, sia ribadendo le sue riflessioni contro la pena capitale, sia adducendo il titolo del libro).
E che cosa è l’amore se non il bene, il giusto, che vince sul male? Così ne parla lo stesso Hugo a pagina 1307: “Il libro che il lettore ha sotto gli occhi in questo momento è, da un capo all’altro, nel suo insieme e nei dettagli, quali che siano le intermittenze, le eccezioni o le lacune, il cammino dal male verso il bene, dall’ingiusto al giusto, dal falso al vero, dalla notte al giorno, dall’istinto alla coscienza, dalla putredine alla vita, dalla bestialità al dovere, dall’inferno al cielo, dal nulla a Dio. Punto di partenza: la materia; punto d’arrivo: l’anima. Al principio, l’idra, alla fine, l’angelo.”
LA STORIA
Farla spiccia in questo caso non è facile, ma ci provo. Prendete un uomo nato buono. Fategli, per bontà, commettere un furto utile a placare la fame di un fratello. Arrestatelo. Condannatelo prima per 25 anni (dopo vari tentativi di fuga) e poi all’ergastolo. Macchiatelo per una sciocchezza della più terribile delle malattie, quella che genera pregiudizio. E poi mandatelo in giro per la Parigi dei primi dell’Ottocento. Respinto e additato da tutti, lo vedrete diventare sempre più randagio. A quel punto inserite la mano di Dio che per tramite di un buonuomo senza pregiudizi getta a quel cane un pezzo di pane, anzi un arrosto di vitello intero, e poi una sacca di ossi per il futuro, e questo dopo che lo stesso randagio gli ha morso la mano, non per cattiveria, ma per istinto. Che cosa può accadere a un uomo salvato dalla propria vittima?
La parabola di Jean Valjean è meravigliosa, il bene che semina quest’uomo è sovraumano, la colpa che lo affligge, tra le più ingiuste che si possano immaginare, le prove che deve superare, sia esterne sia autoinflitte, le più difficili. Salverà un paese, poi tenterà di salvare una donna, quindi sua figlia, cambierà pelle senza mai indossare maschere, sarà fuggitivo senza mai scappare dalle proprie responsabilità, sacrificherà ogni ricchezza cibando randagi veri, amerà di uno degli amori più casti tanto da morirne, ma mai si sentirà all’altezza della sua vittima. L’amore che questo libro ti fa scorrere nelle viscere, è conturbante e contorcente. Fa un sacco male, e un sacco bene. Che meglio non si poteva scriverlo un libro sull’Amore. Ho pianto tanto.
OLTRELATRAMA
Ma come detto non è solo un romanzo. È un libro, suddiviso tra l’altro in volumi. Se da una parte vi è la storia di Jean Valjean, l’ergastolano (e Fantine, la sventurata, e Cosette, l’allodola, e Marius, il giovane, e Gavroche, il monello, e Javert, l’intransigente, e dei Thénardier, ladri sciagurati, ecc…), dall’altra è anche un libro “catalogo” e di “elenchi” che ne conta proprio tanti, ma non infastidiscono perché dopo i primi due o tre iniziano a fare sistema per cui uno di tanto in tanto se li aspetta, e poi se li gode.
Catalogo, in quanto contiene delle “schede” se così vogliamo chiamarle che, per quanto possano servire da ampliamento di un ambiente, una situazione politica o un contesto in cui si svolgono le vicende narrate, in verità sono isolate e autoconclusive.
Tra tutti gli inserti che sono contenuti, ammetto di aver accusato noia nella descrizione della battaglia di Waterloo (capitolo 16). Lunga ed estenuante. Non dico che non sia scritta bene. Ci mancherebbe. Anzi. Potrei dire che si tratta della rappresentazione di un evento storico riportato in modo più che convincente e con grande capacità di resa delle immagini: un ottimo esercizio di scrittura circa un’enormità di movimenti e comparse e luoghi e piccole ma fondamentali circostanze la cui descrizione non è facilmente riproducibile. E potrei aggiungere che il controllo che ha sulla massa che fa scendere in pagina è notevole. Ma da lettrice quale che sono io dico ben, bravo, clap clap ma a me interessa l’altra storia… per cui l’ho vissuto come uno spiegone infinito, una pausa noiosa, perché ho subito molto caos con zero immedesimazione.
Interessante invece l’intermezzo sui conventi, per citarne uno anche utile alla storia, e pure il confronto tra questi e le prigioni. Il confronto tra il male e il bene che entrambi si pongono; la punizione per i primi diventa espiazione negli altri… quale massima espressione dell’abnegazione.
Per non parlare del testo notevole e di grande attualità offerto dal capitolo L’onda che in questo post ho già riportato a suo tempo, estratto del capitolo che qui riporto:
«Un uomo in mare! Che importa? La nave non si ferma. Il vento spira e quella nave maledetta è costretta a continuare la sua rotta; prosegue. L’uomo scompare e ricompare, s’immerge e risale alla superficie, chiama e tende le braccia; ma nessuno lo sente. La nave, percossa dall’uragano, bada solo alla manovra; i passeggeri e i marinai non vedono neppur più l’uomo sommerso, e la sua povera testa non è che un punto nella immensità delle onde. Egli getta in quella profondità grida disperate. Oh, quale spettro, quella vela che se ne va! Egli la guarda, la guarda freneticamente; essa s’allontana, scolora, impicciolisce… E dire che poc’anzi era là egli pure, faceva parte dell’equipaggio, andava e veniva sul ponte, cogli altri, aveva la sua parte di respiro e di sole, era vivo, insomma! Che è successo, dunque? È scivolato, è caduto ed è perduto. È nell’acqua mostruosa, ha sotto i piedi solo fuga e ruina; le onde, stracciate, sbriciolate dal vento, lo circondano orrendamente e il dondolìo dell’abisso lo porta via. Tutti i flutti s’agitano intorno al suo capo, una folla d’onde gli sputa addosso, confuse aperture lo inghiottono; ogni qual volta s’inabissa, intravede precipizî pieni di tenebre, e spaventose vegetazioni sconosciute l’afferrano, gli legano i piedi e l’attirano a sè. Egli sente che diventa abisso, che fa parte della schiuma e che le onde se lo buttano dall’una all’altra; beve l’amarezza, mentre il vile oceano s’accanisce nell’annegarla e l’immensità giuoca colla sua agonia. Sembra che tutta quell’acqua si sia fatta odio. Pure egli lotta e tenta di difendersi, di sostenersi; fa uno sforzo e nuota. Egli, povera forza subito stanca, combatte l’instancabile. Dov’è dunque la nave? Laggiù, appena visibile nelle pallide tenebre dell’orizzonte. Fischiano le raffiche e tutte le schiume l’opprimono; alza gli occhi e scorge il lividore delle nubi. Assiste, agonizzante, all’immensa follìa del mare, che lo sta suppliziando; ed avverte rumori sconosciuti all’uomo, che gli sembrano provenire da oltre la terra, da non so quale mondo. Ci sono uccelli nelle nubi, come angeli sopra le sciagure umane; ma che posson fare per lui? Volano, cantano e guizzan via, mentr’egli rantola. Si sente seppellito contemporaneamente da quei due infiniti che sono l’oceano e il cielo; l’uno è la tomba, l’altro il lenzuolo. E la notte scende. Egli nuota da molte ore e le sue forze sono allo stremo; quella nave, quella cosa lontana in cui vi erano degli uomini, è dileguata. È solo nel formidabile abisso crepuscolare, sprofonda, s’irrigidisce, si contorce, sentendo sotto di sè le colossali onde dell’invisibile: e chiama. Ma non ci son più uomini. E dov’è Dio? Chiama. Qualcuno, qualcuno! Chiama sempre: nulla allo orizzonte, nulla nel cielo. Implora lo spazio, l’onda, l’alga e lo scoglio: sono sordi. Supplica la tempesta; ma essa ubbidisce solo all’infinito. Intorno a lui sono soltanto oscurità, nebbia, solitudine, tumulto burrascoso e incosciente, l’indefinita ondulazione delle acque selvagge; in lui, orrore e stanchezza; sotto di lui, abisso. Nessun punto d’appoggio; egli pensa alle tenebrose avventure del cadavere nelle ombre senza limite. Il freddo senza fondo lo paralizza; gli si raggrinzano e gli si serrano le mani, che stringono il nulla. Venti e nubi, turbini e folate, inutili stelle! Che fare? Disperato s’abbandona, poiché chi è stanco decide di morire e lascia fare, si lascia andare, cede, ed eccolo rotolato per sempre nelle mortali profondità dell’abisso vorace. Oh, implacabile cammino delle società umane! Perdita di uomini e d’anime per strada! Oceano in cui cade tutto ciò che la legge lascia cadere! Sinistra scomparsa del soccorso, morte morale! Il mare è l’inesorabile tenebra sociale in cui la penalità getta i suoi dannati; il mare è l’immensa miseria. L’anima, in balìa di quel baratro, può diventare un cadavere; chi la risusciterà?»
E poi mi va di citare la descrizione delle sabbie mobili che è davvero suggestiva.
Dunque mentre la storia principale mi è piaciuta tantissimo in tutte le sue parti, i contorni, gli annessi, quelle cose che sembrano più che altro dei saggi sono stati talvolta interessantissimi, altre volte noiosini, ma siccome la trama è avvincente si resiste con soddisfazione.
E poi ho parlato di elenchi. Ah, quanto li ama Hugo, almeno in questo libro. Vi sono descrizioni infinite, e a volte bellissime. Eccovene una presa a caso – pag. 958: “Tutte le miserie si trovavano in quel corteo come in un caos; là c’erano i caratteri facciali di tutte le bestie, vecchi, adolescenti, crani nudi, barbe grige, ciniche mostruosità, rassegnazioni astiose, ghigni selvaggi, atteggiamenti insensati, grugni agghindati con dei berretti, e proprio per questo orribili, magri visi di scheletri cui mancava solo la morte”.
E per restare in tema di descrizioni, I miserabili ne contiene due davvero belle volendo limitarci alla caratterizzazione dei personaggi. I Thénardier sono una chicca. Eccovi quello che io chiamo un portrait spettacolare (anche quello della moglie è fantastica). Ne riporto solo alcuni stralci… da pagina 406-408: “Thénardier era un ometto magro e smilzo, angoloso, ossuto e striminzito, che aveva l’aspetto malaticcio e stava benone: di qui incominciava la sua furberia. (…) Thénardier aveva un non so che di rettilineo nel gesto che, unito a una bestemmia, ricorda la caserma, unito invece a un segno della croce ricorda il seminario. (…) Thénardier era sornione, goloso, perdigiorno e abile, e non sdegnava le donne di servizio (…). Thénardier, uomo soprattutto astuto ed equilibrato, era un furfante del genere temperato, la peggior specie, poiché vi si unisce l’ipocrisia.”
Al di là di elenchi e inserti, questa dei Miserabili è una storia davvero bella. Ben scritta. Totalmente priva di quel filo di ironia caricaturale che c’è nei Fratelli Karamazov, ma altrettanto emozionate, se non divertente. In verità il confronto nasce solo dal fatto che vi è di fondo una grande esplorazione della spiritualità. Ma se nei Karamazov ho respirato un ambiente teatrale, qui mi è parso di tenere in mano una parabola tra le più degne. Mi si sono cullata dentro bene in quelle pagine lì, sono state tanto ospitali con me, e per questo sono loro riconoscente. E poi niente, un po’ di quei miserabili ormai mi è entrato sotto la pelle. Un po’ miserabile anch’io, come tutti.
UN MILIONE DI FRASI BELLE… NE CITO SOLO ALCUNE
– “La folla tradisce il popolo”
– “La natura è un creditore che non accetta protesti”
– “Salvarsi con ciò che ti ha perduto, ecco il capolavoro degli uomini forti”
– “Talvolta lo stomaco paralizza il cuore.”
– “La bellezza e la grandezza (…) consiste nel mettere meno pancia degli altri, e di stringere più facilmente la correggia, nell’essere primi a svegliarsi e gli ultimi ad addormentarsi, ad andare avanti e indagare, questo perché è da artisti”.
– “L’ideale non è altro che il punto culminante della logica, come il bello è la cima del vero”
– “I buoni pensieri hanno i loro abissi come i cattivi”
– “È certo che uno dei lati della virtù finisce nell’orgoglio. C’è, in quel punto, un ponte costruito dal diavolo.”
– “È difficile prendere alla gola l’ombra e metterla a terra”
– “La gioia che noi ispiriamo ha questo di bello, che lungi dall’indebolirsi come ogni riflesso, ci ritorna ancora più vivida”
– “L’anima aiuta i corpi e in certi momenti li solleva. È l’unico uccello che sostiene la propria gabbia.”
– “…non erano che luce e polvere, due cose di cui si compone la gloria”
– “Il mulino non c’è più, ma il vento continua a soffiare”
– “Spesso credendo di annodare un filo se ne lega un altro.”
– “Questa carne da cannone innamorata del cannoniere”
– “Essi confondono con le costellazioni degli abissi le stelle che le zampe delle oche lasciano nella melma del pantano”.
IMPEGNO POLITICO
Un filo conduttore che ho trovato negli unici due romanzi di Victor Hugo da me letti, me lo rendono al di là della visione dello scrittore un uomo politicamente e civilmente impegnato (non mi va di cercare notizie o conferme in questo momento; preferisco dire quello che mi pare). Non di rado ha espresso nel libro le sue opinioni politiche, ma quello che doveva tormentarlo più di altro era il “perdono”, prima ancora della provvidenza; e di certo la giustizia (quella divina), perché sia all’inizio dei Miserabili (è in fondo l’origine dell’ingiusto male di Jean Valjean), e poi ancora più avanti e di nuovo alla fine pone in evidenza l’errore dell’esistenza della pena di morte, in modo molto sentito, e guarda caso riesce persino ad autocitarsi! All’inizio del settimo libro, quello dedicato all’origine del gergo (bellissimo) cita il titolo del libro che porta proprio un titolo impossibile da fraintendere: “L’ultimo giorno di un condannato a morte” – che ho letto trovandolo molto bello. Questo scrissi in merito, qualche anno fa:
Vedi anche la nota su: L’ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE
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