«Un prodotto del mio agire»

Dato che mi si cita in questo articolo, condivido con piacere.

«Lo stile non precede la scrittura, ma si forma in essa»

Articolo di Giulio Mozzi

Quando scrissi il mio primo racconto, il 16 e 17 febbraio del 1991 — è passato un bel po’ di tempo —, non avevo nessuna idea di stile. Sapevo scrivere, sì, e sapevo anche in una certa misura controllare la mia scrittura: sette anni passati a lavorare in un ufficio stampa, di cui quasi quattro sotto la direzione di Guido Lorenzon — che stimavo, e tutt’ora stimo, moltissimo — non erano passati invano. Ma scrivere in un ufficio stampa, rispetto allo scrivere narrativa, è una cosa diversa; non aliena, ma diversa. Ero in un periodo in cui scrivevo molto: soprattutto mi scambiavo lettere con Laura Pugno, che avevo conosciuta il 30 aprile del 1988: era di dieci anni più giovane di me, ma aveva una consapevolezza di ciò che voleva alla quale io non sono mai arrivato, e una relazione col linguaggio già intensissima e per me, ora come allora, misteriosa. Avevo, negli anni, scritto molto: negli anni della scuola superiore riempivo quaderni e quaderni — non ricordo cosa scrivessi: sicuramente non storie, a quel che ricordo (perché sì, io sono quello che distrugge il proprio passato: quei quaderni non li ho più da molti anni) cercavo di imitare i libri che leggevo. La mia memoria è tutta un buco, e l’unica immagine che ho è questa: io che scrivo, con la mia grafia allora minutissima, su un’agenda telefonica dalla copertina gommata azzurra, cercando di riprodurre Proust. Avevo letto Du côté de chez Swann, in francese, restandone affascinato e non capendone in sostanza niente; ma cercavo di riprodurre quell’andatura delle frasi, quella scrittura eternamente sospesa, quell’andar dietro a sensazioni e particolari instancabilmente. Se mi fosse stato domandato perché facevo quel che facevo, non avrei saputo cosa rispondere.

Quando scrissi il mio primo racconto non avevo nessuna idea di stile. Ma proprio nessuna. Non avevo neanche nessuna idea di narrazione, peraltro. Non volevo fare una certa cosa. Volevo solo reagire a una situazione: Laura, allora a Londra per l’Erasmus, era stata borseggiata; nella borsetta che le era stata sottratta conservava due delle mie lettere; ero stato quindi, in un certo senso, derubato anch’io; e volevo colmare il vuoto che si era creato. Scrissi una lunga lettera immaginando — ma oggi direi piuttosto: simulando — di essere il ladro, di aver trovato quelle lettere, e di aver deciso di restituirle. Non c’era una trama. C’era una tensione. Non capivo quale fosse il sentimento del ladro verso la giovane donna borseggiata: di sicuro c’era anche dell’attrazione. Il ladro aveva letto quelle lettere e si era domandato che relazione potesse esserci tra la giovane donna borseggiata e l’amico che le aveva scritto. Oggi chiunque potrebbe dire: eh, stavi riflettendo sulla tua amicizia con Laura. Rispondo: può darsi, sono certo che allora non mi venne in mente: non era questo che volevo fare, se stavo facendo questo non me ne rendevo conto. Io volevo solo rimediare a una mancanza che si era prodotta nelle nostre esistenze.

Non avevo nessuna idea di stile, ma in quei giorni stavo leggendo Il bosco sacro, una raccolta di saggi di T. S. Eliot. Sono sicuro che non ci capivo molto, ma certe cose dell’andatura della prosa di Eliot mi erano rimaste attaccate. Per esempio, quella sua abitudine di mettere avanti un pensiero, poi rifinirlo, poi modificarlo, poi quasi cancellarlo fino quasi a farlo sparire del tutto. Non so se Eliot faccia davvero questo, in quei saggi: questo è ciò che io avevo percepito, ciò che mi era rimasto attaccato. E quella lettera che scrissi — che per me era una lettera e basta; sottovalutandola, la ritenevo una specie di gioco o di scherzo — è infatti tutta un dire e non dire, un arrivare a dire una cosa e poi nasconderla. Un’altra cosa che mi aveva colpito di quelle prose di Eliot era la capacità di saltare di palo in frasca. Se doveva dire due cose, Eliot non provvedeva mai a legarle prima: ne metteva giù una, poi andava a capo e metteva giù l’altra, lasciando al lettore il lavoro di connettere. E così cercai di fare. Non so più se per gioco o per senso di colpa — avrei voluto che la mia simulazione venisse svelata? — inserii nella lettera quattro o cinque frasi intere prese di peso dai saggi di Eliot.

Fu poi Laura a farmi notare che con quella lettera avevo scritto un vero e proprio racconto. Ma questa è un’altra storia.

Quattro o cinque anni dopo, in una riflessione che poi inclusi nel libro Parole private dette in pubblico (Theoria 1997, Fernandel 2002), un titolo che è preso, guarda caso, da un verso di Eliot, scrissi:

«Certo: io voglio che la mia interiorità trovi “la forma adeguata al suo essere”. Ma la mia interiorità, a rigore, è una cosa che non esiste. Sfido chiunque a mostrarmi la sua interiorità come può mostrarmi le sue mani. Dell’intelletto, forse, si può provare l’esistenza. Ma dell’interiorità? Ecco, l’interiorità è un prodotto del mio agire. Io, producendo le mie storie, produco la mia interiorità (anche facendo altre cose produco la mia interiorità; ma è di storie che stiamo parlando). Quindi se dico: ascolto la mia interiorità, dico in verità: ascolto quello che sto facendo. La mia interiorità non è un dato di fatto.»

Sostituiamo alla parola «interiorità» — che oggi non userei più, tanto mi sono convinto di non averne alcuna — con la parola «stile»:

«Certo: io voglio che il mio stile trovi “la forma adeguata al suo essere”. Ma il mio stile, a rigore, è una cosa che non esiste. […] Ecco, lo stile è un prodotto del mio agire. Io, producendo le mie storie, produco il mio […]. Quindi se dico: ascolto il mio stile, dico in verità: ascolto quello che sto facendo. Il mio stile non è un dato di fatto.»

Non esiste, al giorno d’oggi — al tempo di Virgilio e Orazio le cose non andavano così: ma non è più il tempo di Virgilio e di Orazio, e neanche di Dante o Shakespeare — uno stile che possa precedere la materia. Lo stile è prodotto dall’agire sulla materia, dall’immaginarla, dal rigirarla nell’immaginario, dal tentare di scriverla, dal buttare via lo scritto e riscriverla, dal tornare sul già scritto e modificare, mutare, aggiungere, togliere.

«Ma allora — uno potrebbe dire — a che cosa serve studiare astrattamente lo stile?». Serve a riempire il magazzino. Credo di non avere mai scritto nulla senza attingere al magazzino. La mia memoria dimentica senza imbarazzo la materia di ciò che leggo, ma ricorda addirittura con sicurezza lo stile. Lo ricorda e lo mette da parte. La mia memoria è un magazzino di stili. Ho sempre letto molto, fino a qualche tempo fa (ora leggo pochissimo, e quasi solo per lavoro). Ho letto e immagazzinato. Dal momento in cui ho capito a che cosa mi serviva leggere — non mi serviva a godere della bellezza dei capolavori antichi o moderni, non mi serviva a imparare qualcosa, non mi serviva per imparare la letteratura: mi serviva a riempire il magazzino — sono diventato ancora più rapinoso. Anche più esigente: un’andatura di scrittura, o se preferite uno stile, che non mi suoni nuovo — perde subito interesse per me. Per questo leggo sempre meno, per questo rileggo in continuazione certi pochi libri: le rime di Dante, la scelta di poeti barocchi fatta da Benedetto Croce, le Operette morali, poco altro (altri libri li rileggo perché nutrono il mio immaginario: La talpa di John LeCarré, Dune di Frank Herbert; e non stupitevi se si tratta di quella che certi catalogano come «paraletteratura»). I libri che rileggo sono quelli che mi risultano misteriosi: misterioso non è ciò che non si capisce, ma ciò che rivela cose nuove ogni volta che lo visitiamo.

La mia amica Manuela Mazzi, che mi affiancherà nella conduzione del corso e che è stata un’atleta — ha fatto parte della nazionale di karate svizzera e poi di quella italiana nella disciplina del kumite —, dice: «Ho imparato nello sport che dopo aver copiato, rapinato, interiorizzato eccetera le tecniche dalle più basilari alle più complesse, per dar loro efficacia c’è solo un modo: è necessario dimenticarle! E forse proprio la capacità di dimenticare ci permette di liberare la nostra voce, anziché limitarci a replicare vuotamente forme e stili appresi».

Un corso come Fondamenti di stile (La cura di uno stile), quindi, non è un corso nel quale si insegna come si scrive. Tutt’altro. Un corso sullo stile è un corso nel quale si cerca di svegliare l’attenzione nei confronti dei fatti stilistici. Alcune esercitazioni anche molto banali — come quella, per esempio, di «tradurre» in italiano corrente certi scrittori difficilini — servono solo a questo. Io ci sono arrivato da solo, ad avere una certa sensibilità, e ci ho messo un pezzo. Per carità, si può sostenere che avessi del talento, qualunque cosa significhi questa parola che mi piace poco. Ma si può osservare che se a diciassette anni imitavo Proust, il mio primo racconto l’ho scritto a trentuno. Un tempo piuttosto lungo. Forse si può progredire un po’ più velocemente.

E quindi: il corso Fondamenti di stile (La cura di uno stile), che conduco con Manuela Mazzi e che è organizzato congiuntamente da Bottega di narrazione e Photo Ma.Ma. Edition, ha i presupposti che ho appena descritto qui. Lavoreremo molto con i dizionari — fate la cernita di quelli che avete in casa, anche vecchi, meglio se vecchi, e concedetevi una visitina alla «Stazione lessicografica» (http://www.stazionelessicografica.it/) —, faremo molti esercizi di trasformazione di testi, litigheremo (è una profezia confortata dall’esperienza) su che cosa sia una padella, che cosa un tegame e che cosa una pentola (per tacer della casseruola), ci eserciteremo con frasi lunghe, lunghissime, brevissime e brevi, impazziremo su qualche testo difficile, scoveremo le difficoltà di qualche testo facile — eccetera.

Le iscrizioni sono aperte. Si comincia l’11 settembre, quindi datevi una mossa.

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