Così è l’amore non corrisposto, sospeso e potenzialmente letale

«La montagna incantata», di Thomas Mann

Ho terminato la lettura di questo grande romanzo del Novecento, come si suol dire, già da un paio di mesi, ma non riuscivo a scriverne. Ci provo ora. La difficoltà nasce dal contenuto del libro che si presta più che a molte letture, a una lettura ancora più lenta di quella adottata da me, che ci ho messo due anni per terminarlo. Servirebbe, infatti, una lettura ragionata, pagina dopo pagina. Un lavoro immane. Servirebbe per soddisfare il senso di vuoto di parole che ho nel mentre cerco di dire qualcosa di corrispondente all’opera. In pratica sento di essermi persa molto di quanto letto, ed è poi la ragione per cui non ne ho ancora parlato: mi pare di poter dire niente che sia sufficiente a rendere la portata di quel che vi è contenuto. Avrei la voglia di approfondire ogni dettaglio, ma in fondo lo avranno già fatto menti ben più elastiche della mia, e poi a me manca il tempo. Eh sì, proprio il tempo: uno, se non il protagonista principale di questo capolavoro. L’amore è – per me – il secondo protagonista. Questo è di fatto un libro sull’ossessione per un amore non corrisposto.


Sono rimasta sorpresa anche da un’altra impressione: non ha nulla che fare con «La morte a Venezia» (romanzo dello stesso autore) in quanto stile. Perché se da una parte il contenuto è “lo stesso” – anche in quel frangente si filosofeggiava, più sull’arte che non su altro, al mare invece che in montagna, e anche in quel caso la riflessione sulla vita e sulla morte è al centro del tema “amore imprendibile” – dall’altra, in quanto stile, nella Montagna incantata non c’è una parola di troppo, mi vien da dire, mentre troppe ne contiene «La morte a Venezia», per me.

E già solo la premessa di questa nota di lettura sfora il numero massimo di battute (lo dico per anticipare che non sarà breve, temo).

E poi, a farmi correre il rischio di dilungarmi, c’è la Svizzera (il mio paese), c’è la montagna (la mia terra), c’è il sanatorio (molti di quelli ancora presenti oggi sono tecnofossili – grazie alla scoperta dei vaccini giusti –, ma quello di Davos è ancora là, convertito, certo, ma sta sempre là, nel cuore dei Grigioni, anche se non si chiama più Berghof, ma Schatzalp), e infine c’è il mal di petto e l’isolamento forzato (che troppo ricorda la pandemia di questi due anni). Ho iniziato a leggere «La montagna incantata» proprio all’inizio della prima ondata di contagi, ingenuamente convinta di trovarci “aria buona e fresca” da respirare, in contrapposizione alle immagini che scorrevano in tv mostrando i ricoverati in cure intense. Questa, una delle ragioni per cui ho impiegato molto a portarlo a termine: arrivata alle pagine descrittive della malattia, dovetti smettere, l’anno scorso, anche se poi avrei scoperto che in verità il romanzo diventa comunque altro.

LA TRAMA
Castorp è un giovane distinto, un uomo di città che sta per prendersi delle responsabilità, sta per cominciare un lavoro, sta per avviarsi nella vita in un flusso apparentemente già immaginato (più da altri che non da lui medesimo), quando decide di prendersi tre settimane di libero per andare a far visita al cugino ricoverato al Berghof, sanatorio di lusso di Davos. Qui il tempo un po’ s’allunga, un po’ s’accorcia, talvolta si dilata orizzontalmente, altre volte si ferma. Al Berghof, Castorp avrà che fare sia coi medici sia coi pazienti, borghesi e aristocratici di tutt’Europa. Tra questi vi è pure Madame Chauchat, l’elegante e inarrivabile donna di cui si prenderà una cotta pazzesca di quelle che solo nei romanzi si possono raccontare senza dirne davvero. Un amore che resterà quasi per tutto il romanzo discretissimo, quasi incerto allo stesso protagonista. Ma palese in tutta la sua struggente sospensione, al lettore che vorrebbe dare una spintarella al protagonista.

Lassù l’aria è sin troppo rarefatta, arrossa le guance tanto quanto la febbre, il freddo è la misura dell’impazienza. La scissione tra il sopra (alta montagna, dove i malati sono trattati tutti alla stessa maniera e dove la solidarietà è l’unica emozione che può calmierare le speranze disattese) e il sotto (la pianura, la civiltà cittadina, dove gli animi non trovano pace) è sempre più netta.

Intanto il tempo, il tempo concede alle menti di fermarsi a riflettere, confrontandosi tra loro, disquisendo su temi filosofici che spaziano dalla scienza, all’ambiente, alla politica, a concetti universali, dai corpi all’arte, dalla religione associativa ai principi della fede. Nella sua inerzia, Castorp seguirà durante tutto il suo soggiorno le discussioni di e tra il letterato italiano, certo Settembrini, e il gesuita di origine ebraica, Naphta, uno propositivo, ottimista, fiducioso, l’altro disfattista, nichilista, sconsolato. Sembra a volte, immedesimandoci nell’ascolto di Castorp, che egli cerchi nelle convinzioni, e di uno e dell’altro, risposte che da solo non riesce a trovare. Risposte a domande che a me sembrano essere fatte tutte della stessa materia: vita, morte, amore. O meglio, perché lottare per vivere se non per amore, ché, senza di esso, tanto varrebbe morire?, o scegliere la guerra, come fa a un certo punto il cugino… come a un certo punto fanno tutti.

OLTRELATRAMA
Anche se s’affatica la vista – il carattere della scrittura è in miniatura (non esistono pubblicazioni alternative a quella di Corbaccio, o almeno io non ne ho trovate) – lo scorrere è vivace, cosa che proprio non mi aspettavo in un tal librone, che si prende, sì, il suo spazio, il suo tempo, ma per dare ossigeno a riflessioni che ne richiedono molto, di ossigeno, e non per riempire pagine con aria stantia. Penso che, forse, anche alla «Morte a Venezia» avrebbe giovato più ossigeno, più pagine.

Mi sono poi interrogata su chi fosse il narratore, perché è così tanto focalizzato su Castorp, e allo stesso tempo cammina con tanta sicurezza tra i corridoi di quel monumentale ospedale mascherato da alloggio di lusso che ho pensato per tutto il tempo della lettura, che a raccontarmi quella storia fosse un altro ospite di cui non sapremo mai nulla.  

Un ospedale, un sanatorio che a tratti sembra una prigione, o ancora di più a una fortezza: il primo capitolo mi ha infatti ricondotta al «Deserto dei tartari» di Buzzati, perché allo stesso modo del protagonista soldato, qui il nostro si ritrova in una «roccaforte» di malati, un po’ fuori dal mondo, dove il tempo è sospeso e dove già gli vien detto che seppure non sia malato qualche cura se la potrebbe fare, e che dicono così in città… «tre settimane», ma lassù si parla di mesi che fan lo stesso.

Un tempo sospeso che io però, in quanto elvetica residente ai piedi delle Alpi dove ho trascorso le estati delle mie fanciullezza e adolescenza, riconosco come casa. Lo dico perché confrontandomi con altri che hanno letto lo stesso romanzo, ho notato spesso questa percezione di un «fuori dal mondo» come se fosse un effetto non solo ricercato ma addirittura forzato dall’autore, quando invece è esattamente la percezione che si ha quando si vive in montagna, in strutture isolate. Sapendo che Mann, a Davos, si ritrovò nel 1912 ad assistere la moglie Katia proprio in quel sanatorio, mi chiedo quanto ci sia di voluto («enfatizzato»?) e quanto invece di «normale» resa del luogo.

Ho amato molto le disquisizioni filosofiche, e amerei rileggerle. Ma quello che più mi ha impressionato è il classico «non detto»: tutta quell’ossessione, come lo sono tutti gli amori più forti e non corrisposti, di Castorp per la Chauchat, che gli permette di ammalarsi con serenità, di resistere, di attendere anni, di sacrificare il proprio desiderio, di lasciar andare il passato e i legami famigliari, di dedicare ogni sguardo e ogni pensiero a quella presenza distratta dal mondo, di rispettarne il disinteresse più profondo o l’accettare la superficialità del suo sguardo, è qualcosa che conosco e che mai avrei saputo rendere così bene in un romanzo che finge di parlare di tutt’altro, dicendo tutto il necessario.

CITAZIONI, sarebbero tante, ma ne metto solo un paio

«…secondo me la gratitudine consiste nel fare buon uso dei doni ricevuti»

«L’uomo non fa mai un’osservazione universale, un po’ studiata, senza tradirsi del tutto, senza metterci inavvertitamente tutto il suo io e rappresentare in qualche modo simbolico il tema fondamentale e il primo problema della sua vita.

Le sue osservazioni sono invero scaturite dal fondo della sua personalità e hanno espresso anche lo stato presente di codesta personalità in maniera poetica: è ancora allo stato dell’esperimento.»

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