«Vite brevi di tennisti eminenti» di Matteo Codignola
«Un mondo picaresco tramontato da oltre mezzo secolo, che l’autore appassionato racconta con educata ironia»
Ho letto il libro di Matteo Codignola, Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018), e ne ho scritto su Azione. La versione integrale del testo – per chi desidera leggerlo ma non ha accesso al cartaceo – si trova scrollando verso il basso oppure online (non richiede iscrizioni perché è un settimanale d’approfondimento gratuito).
L’esuberanza di un mondo libero dal professionismo
Editoria – In Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola tutta la passione di giocatori che prima di inseguire la vittoria impressionavano pubblico e avversario
«Pancho era irriducibile […] Nelle more della partita, trovava il tempo di urlare a dieci centimetri dalla faccia di un giudice di linea, decapitare il microfono di quello di sedia con una racchettata, scaraventare palle in tribuna mirando allo spettatore che l’aveva infastidito, fare il verso all’avversario, o mettersi in posa fra una palla e l’altra per i fotografi». Non giriamoci attorno, ci piace pensare che se il tennis fosse tanto bizzarro com’era negli anni del primo dopoguerra, oggi conterebbe forse anche più appassionati di quanti ne ha il calcio.
Un mondo picaresco tramontato da oltre mezzo secolo, che l’autore appassionato racconta con educata ironia
Difficile non lasciarsi coinvolgere dai personaggi tratteggiati da Matteo Codignola nel suo Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018). Titolo che parafrasa il più noto Vite brevi di uomini eminenti(opera ripubblicata sempre da Adelphi nel 2015) di John Aubrey (1626-1697) il quale, come si legge nel pre-frontespizio non firmato, «…ebbe in grado supremo la qualità […] di saper nominare il particolare, l’aneddoto individuante e un’innata sapienza nell’evocare il tono, il gesto, la fisiologia della vita», così ci pare di poter riferire anche di Codignola.
Si è detto di personaggi, ma in verità questa raccolta di sportivi oggi perlopiù sconosciuti ai non appassionati, restituisce la storia di un gioco amatoriale appassionato e contrapposto a quello professionistico, la selvaggia purezza contro la commercializzazione di uno sport deflorato completamente negli anni Settanta. «Il tennis pro aveva tutto quanto uno spettatore potesse desiderare in fatto di qualità, ma per essere attraente fino in fondo doveva rubare al suo parente povero (ndr: al circuito amatoriale) l’ingrediente principale […] per il quale il pubblico stravedeva: le storie».
Di storie non ne mancano nel libro di Codignola: «Se pensate che stia presentandovi il tennis come un sogno – scrive l’autore – e il tentativo di raccontarlo come una specie di analisi, avete ragione».
Un mondo picaresco tramontato da oltre mezzo secolo, che l’autore «ossessionato», dice lui, da campi, racchette e palline, ripropone avvalendosi di alcune vecchie fotografie d’agenzia risalenti alla metà del Novecento, ritrovate da un conoscente in una valigia di cuoio acquistata al mercatino di Cormano, secondo la narrazione: una ventina di foto per altrettanti capitoli, dove quel che conta non è quasi mai ritratto, ma dalla cui immagine si apre un grandangolare che annette i non detti e i non osservati.
Molte le sfaccettature di questo sport messe in risalto dai racconti, che spaziano dalle disquisizioni sullo stile di gioco alla necessità di fare punti, dal giornalismo alla musica – «Senza suono il tennis non esiste» sosteneva Torben Ulrich, il quale siccome era abituato alle sonorità del legno, trovava «le vibrazioni del metallo anonime, quindi confusive e non affidabili»; «Ho aspettato a lungo che succedesse qualcosa, dentro di me, ma non è successo nulla. La musica non è arrivata» – al dresscode: «Il tennis è nato insieme a un senso del pudore quasi fanatico […] nei suoi primi anni in Francia il tennis era quasi solo una questione di toilette». Facile intuire la portata dello scandalo di Gussy quando indossò un abito sportivo indecente, senza spalline, con la gonna più corta, troppo corta, per una che normalmente non indossava biancheria intima sotto i calzoncini…
«Da Tilden a Borotra, via naturalmente Lenglen, nel tennis di un tempo il comparto animali da palcoscenico era piuttosto affollato». Ne danno un assaggio anche le storie narrate dalla soprannominata Teach: «Joan Crawford? Grande allieva. Il fatto è che per lei esiste solo l’uncinetto. Potrebbe lavorare ai ferri fino a quando non entra in coma. Sferruzza anche quando guarda i film nel suo cinema di casa. Non sai quanti amici e quanti corteggiatori ha fatto fuori, con quell’uncinetto, dopo una bella lavata di piatti».
Il tutto condito da una incredibile voglia di vincere, quando avere voglia di vincere non era solo imperdonabile, ma anche volgare. Tra gli aneddoti più incredibili, si trova quello di Gar che, per non smettere di giocare considerata la sua posizione, attese la fine della pioggia per poi asciugare il campo a carponi, con cinquanta asciugamani, palmo per palmo, e incendiare un paio di pozze che avanzavano, gettandovi un cerino dopo avervi riversato una tanica di benzina.
Per farla breve: un libro bello da leggere anche per chi di tennis capisce poco, sebbene certe volte da «esterni» ci si senta ospiti non invitati, per il tono complice con cui l’autore si rivolge ai propri lettori. Ma è un male quasi irrilevante. Come quell’indugiare sul tema omosessuale. Se da una parte, infatti, non vi sono imbarazzi nel parlare di giocatori e giocatrici in pari misura, dall’altra una certa riluttanza nel riferire di un noto clima omofobo (di cui non ci si meraviglia dato il contesto post-bellico) attira l’attenzione, come nella frase: «…senza mai essere particolarmente ossessionato da uno sport che all’inizio riteneva non troppo mas – (omissis)», per non dire maschile. È evidente il tentativo di stare nel politicamente corretto, ma a volte un’omissione sottolinea maggiormente il fatto omesso, a nostro avviso: quasi l’autore si vergognasse di affrontare il tema. E passino anche le battutine sulla Svizzera, dove l’autore (pag. 224) è cresciuto, per la cronaca «nella Bellevue Klinik, a Kreuzlingen», e di cui ricorda che durante un incontro «Ci sarà stato il solito misto: impaccio di fondo, biscotti di marzapane, qualche lieve sarcasmo sul Petit Prince – che sarei stato io, troppo vestito per gli standard assai calvinisti della buona società elvetica», e sugli svizzeri, che a pag. 204 definisce come «i soliti ingrati», per aver negato la cittadinanza a un ex campione del mondo, militante nella squadra dello Gstaad Hockey, ovvero Jaroslav Drobny.
Resta, in somma, un libro più che godibile, con una buona dose di ironia non sfacciata, e di certo colto da più punti di vista.