Storie di amicizie profonde

La Fondazione Pierre Gianadda di Martigny, oltre a ospitare un bel museo permanente di auto d’epoca, espone fino al 20 novembre la «Collezione Szafran» composta da 226 fotografie del grande Henri Cartier-Bresson

Definito «L’occhio del Novecento», ma anche «Il genio della composizione», documentò la morte di Gandhi e gli ultimi giorni del Partito Nazionalista Cinese a Pechino, durante la loro guerra civile; viaggiò armato di macchina fotografica dalla Francia all’Africa, e poi Spagna, Europa dell’Est, Italia, Messico, Stati Uniti, India, Russia, Cuba…  

Ho avuto il piacere di visitare la Fondazione Pierre Gianadda di Martigny proprio ora che esibisce la «Collezione Szafran» composta da 226 fotografie di Henri Cartier-Bresson; ne ho scritto su Azione, e ripropongo qui le mie considerazione in quanto non mi riesce di suddividere la letteratura dalla fotografia. La versione integrale del testo – per chi desidera leggerlo ma non ha accesso al cartaceo – si trova online (non richiede iscrizioni perché è un settimanale d’approfondimento gratuito).

Storie di amicizie profonde

La Fondazione Pierre Gianadda di Martigny, oltre a ospitare un bel museo permanente di auto d’epoca, espone fino al 20 novembre la «Collezione Szafran» composta da 226 fotografie del grande Henri Cartier-Bresson

Che cosa hanno in comune un museo di auto d’epoca, un’esposizione di reperti gallo-romanici, una collezione privata di fotografie del maestro del reportage Henri Cartier-Bresson, e una mostra di opere a pastelli del pittore francese Sam Szafran? Apparentemente nulla, se non la Storia: quella dell’auto, quella archeologica, quella del Novecento immortalato da una Leica, e quella di un’amicizia profonda. L’amicizia che unì le vite di uno dei più grandi fotografi del ventesimo secolo, votato al bianco e nero, a quella dell’artista delle foglie e delle scale, maestro del colore. Ma anche la storia dell’amicizia che legò la famiglia Szafran – composta da Sam, da sua moglie Lilette e dal figlio Sébastien – a Léonard Gianadda, creatore della Fondazione Pierre Gianadda (voluta per ricordare la scomparsa del fratello), che a sua volta ebbe l’onore di stringere una forte conoscenza con il grande fotografo, il quale pure lo ritrasse in più occasioni.

Ma andiamo con ordine. Nota per l’originale architettura (che si ispira ai templi assiri, ma che a noi sembra un’antica navicella spaziale), la sede della Fondazione Gianadda – ubicata nel Vallese, a Martigny, a sole tre ore e mezza in treno dal Ticino – ospita un’esposizione fissa di auto d’epoca, molte delle quali di produzione svizzera, e assolutamente introvabili altrove. Si parla di modelli fabbricati tra il 1897 e il 1939.

Tale museo, molto colorato, si trova nel Foyer, oltre uno stretto corridoio che porta in una sorta di bunker sotterraneo. Qui circa una cinquantina di auto maestose – tutte funzionanti, e l’odore di olio lo conferma – stordiscono gli appassionati della meccanica e fanno strabuzzare gli occhi agli amanti del vintage: in esposizione si trovano modelli di ogni genere, come le due auto più antiche (1897). Parliamo della francese Jeanperrin e della tedesca Benz. Tra gli altri nomi meno noti, si trovano Oldsmobile Curved, Stanley, Dash, Martini, De Dion-Bouton; mentre è di certo riconoscibile la nota Ford T (1912), e pure ci è più facile individuare marchi altisonanti come Mercedes-Benz, Rolls-Royce o Bugatti.

A dividere l’anteguerra dal periodo romano-gallico, percorso il corridoio già citato, è solo una rampa di scale. Al piano superiore, infatti, è presente un’esposizione permanente di sculture, statuette, manufatti in bronzo, monete, ceramiche e altri oggetti affascinanti che sono comparsi durante gli scavi per la costruzione (risalente al 1977-1978) della sede-spaziale che fu realizzata attorno a ciò che rimaneva di un tempio celtico, il quale fa parte del sito archeologico noto con il nome di Octodurus.

Sono però le opere del grande Henri Cartier-Bresson, noto cofondatore della mitica agenzia Magnum Photos, che ci hanno portati fino a Martigny. Tutta la parte centrale della sede della fondazione Gianadda, fino al 20 novembre, è infatti consacrata alla Collezione Szafran: 226 fotografie, quasi tutte stampe ai sali d’argento, che furono donate a «Sam» dall’amico «Henri», nel corso di ben trent’anni; quasi tutte sono con dedica autografata e alcune riportano anche commenti personali. Si tratta di ritratti d’artisti, scatti trasognanti, scorci di terre lontane, testimonianze di incontri, immagini rubate di gente ai margini del mondo, e tanto altro. Il tutto donato dalla Famiglia Szafran, dopo la morte di Cartier-Bresson (2004), alla Fondazione Pierre Gianadda.

Questa incredibile esposizione non è tuttavia permanente; viene qui riproposta al pubblico solo per sottolineare il cinquantesimo anniversario dal primo incontro tra il fotografo e il pittore, che avvenne a Parigi nel 1972, durante una mostra sull’arte contemporanea.

La Collezione Szafran esposta alla Gianadda si è avvalsa della collaborazione della Fondazione Henri Cartier-Bresson, che ha aiutato a creare un vero e proprio inventario di tutte le opere – classificandole una a una – comprese molte cartoline manoscritte che il fotografo inviò al pittore, o meglio che Henri scrisse a Sam.

Ulteriore materiale umano (raccolto peraltro nel bel catalogo della mostra) utile al visitatore per percepire più che l’espressione artistica, il rapporto di fraterna amicizia che legava i due uomini d’arte. A maggior ragione se si pensa che fu proprio Szafran («A Sam, gli devo molto, è una delle rarissime persone che con Tériade, circa 25 anni fa, mi ha incoraggiato a smettere di suonare sempre lo stesso strumento») a riportare Cartier-Bresson sulla via del disegno (passione che in giovane età lo fece flirtare con il surrealismo), invitandolo ad abbandonare a poco a poco la sua amata Leica, seppur non in modo definitivo: «La fotografia è per me l’impulso spontaneo di una perpetua attenzione visiva che coglie l’attimo e la sua eternità. Il disegno stesso, attraverso la sua grafologia, sviluppa ciò che la nostra coscienza ha colto in questo momento. La foto è un’azione immediata; disegnare una meditazione». Fu così che in cambio dei consigli artistici di Sam, Henri gli inviò molte delle sue stampe.

Durante la visita, leggendo le varie dediche in calce alle stampe, oggi si ha di fatto la sensazione di sbirciare nell’intimità dell’uomo fotografo, il quale parrebbe utilizzasse le immagini come fossero parte di un suo diario, la narrazione delle sue esperienze, più che testimonianza del mondo circostante: «La Leica è il mio taccuino, veloce, discreto, non più grande della mia mano. Perché c’è una cosa che per me è essenziale in fotografia: la sorpresa. La Leica mi impedisce di pensare troppo. Noi fotografi non siamo filosofi», come scrisse lui stesso.

Definito «L’occhio del Novecento», ma anche «Il genio della composizione», documentò la morte di Gandhi e gli ultimi giorni del Partito Nazionalista Cinese a Pechino, durante la loro guerra civile; viaggiò armato di macchina fotografica dalla Francia all’Africa, e poi Spagna, Europa dell’Est, Italia, Messico, Stati Uniti, India, Russia, Cuba…  

Per gli esegeti la sua fotografia trascinerebbe l’osservatore all’interno dell’immagine stessa: individuato uno sfondo, attendeva l’intromissione di un movimento. Lo esibisce molto bene la nota fotografia che scattò al nostro Alberto Giacometti (amico comune sia di Cartier-Bresson, sia di Szafran), nel suo studio di Parigi, trasformando lo scultore in una delle sue sculture. Proprio su Giacometti si concentrano molti ritratti esposti in questa mostra.

Il lavoro di Cartier-Bresson, a noi, incuriosisce però non tanto per il metodo adottato o per l’organizzazione degli scatti, ma per lo sguardo che riusciva a cogliere la spontaneità dei momenti e delle persone che ritraeva. Sono molti i ritratti di politici, artisti, scrittori, e altri pensatori che il fotografo immortalò nelle sue negative: da Henri Matisse a Jean Renoir, da Edith Piaf a Ernst Gombrich, da Igor Stravinsky a Picasso, e poi ancora il Dalai Lama, per finire, ovviamente, con Sam Szafran, ritratto nel suo studio; immagini che scorrono lungo le pareti della galleria diretta al seminterrato, dove si possono ammirare anche le opere del pittore, in parte viste nascere dalle stampe dell’amico che lo ritrasse durante l’ideazione delle stesse.

Tutti scatti che ritraggono le persone e non i personaggi, grazie alla paziente attesa, al rispetto e naturalmente all’intima vicinanza, spesso anche per l’appunto amicale, che riusciva a instaurare Henri Cartier-Bresson: ognuno di loro appare invero ai nostri occhi come disarmato, quasi dimentico della presenza di una macchina fotografica che, in certi casi un po’ ironicamente sfacciata, lo coglie nella sua fragilità, mostrando a volte la pesantezza dei pensieri, altre volte la leggerezza della sua presenza, e sempre il lato più umano, come quello che si intuisce nello scatto che ritrae Giacometti mentre presta attenzione e ascolto alla madre, nella cucina di casa. 

Dove e quando

Henri Cartier-Bresson / Collection Szafran, Martigny, Fondazione Pierre Gianadda. Fino al 20 novembre 2022; tutti i giorni dalle 9.00 alle 18.00; www.gianadda.ch

Le immagini seguenti sono tutte di © Manuela Mazzi

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