«Parole private dette in pubblico» di Giulio Mozzi

Mi rallegro di quante cose siano ancora in grado di sorprendermi. Sono mesi e mesi – e ne ho pure già parlato altre volte – che sento (e leggo) frasi sia di autori affermati sia di aspiranti scrittori volte a sostenere che si scriva solo per gli altri. Non che io scriva romanzi per me: non sono folle. Ma ho sempre pensato che dipendesse da quello che si scrive, per dire: un diario dovrebbe essere l’opposto di una scrittura “pubblica”. Ora, ammetto che sono una cocciuta: “imparo” o “accetto come insegnamento” solo quello che capisco.
Non come frase detta, ma come concetto “sentito”. Se non lo sento, non lo capisco e quindi insisterò a dire che non si dà come vero (più che per ottenere ragione, per stimolare la discussione così da capire). Non mi importa chi lo dice. Tant’è che a suo tempo ho “dibattuto” anche con G.Mozzi di cui – chi mi conosce, lo sa – ho una stima pazzesca. Con lui è capitato però di discuterne solo in un momento di bottega, pochi scambi, perché il punto era un altro, per cui il discorso è poi scivolato via. Con altre persone ho discusso più a lungo, ma nessuno era riuscito fino a oggi a farmi capire il senso di questa affermazione che mi pareva solo una posa in contrapposizione a quanto un tempo si diceva con un certo disprezzo verso chi scriveva per vendere; come se fosse un agire bieco il produrre cose commerciali, per cui sembrava che chiunque “scrivesse solo per sé” e, peraltro, temo che per molti sia davvero solo una posa. Ma fatemi arrivare al momento della “sorpresa”. In questi giorni mi sono messa a leggere un libro proprio di G.Mozzi (“Parole private dette in pubblico”). Mi sono bastate una trentina di pagine per incappare due volte in questo – come chiamarlo? – “principio di scrittura” e, porca miseria, alla seconda: ho capito. E, sì, alla prima ho resistito, poi mi si è incollata una strana sensazione di esperienza diretta che si avvicinava al tema e alla fine mi sono detta che, cavoli, messa così ha un senso che riconosco. La frase chiave è stata quella che ha ribaltato il concetto: “La verità è questa: sono gli altri che ci danno la parola”, quindi (secondo me, non necessariamente secondo G.M., ché io – giova ribadirlo – imparo quello che capisco non come sarebbe auspicabile quello che mi viene insegnato) dicevo quindi: non “scrivo per gli altri affinché mi leggano; ma scrivo per gli altri in quanto è dagli altri che trovo quello che voglio dire, e quindi anche (se volessi essere onesta fino in fondo) mostrare loro: un loro che generalmente è “uno” o “pochi”, per ovvie ragioni. E allora, sì, che si potrebbe affermare che pure il diario viene scritto non per noi ma per qualcuno, essendo noi giocoforza degli animali sociali, per cui quello che siamo e facciamo nasce e si relaziona sempre da/ad altri, poche volte “solo” ad altro, che è pur sempre un’entità esterna al nostro corpo.
Detto questo sono quasi certa che nessuno ci avrà capito niente: per riuscire a capirci qualcosa forse meglio sarebbe leggervi il libro.
Altre parti del libro “Parole private dette in pubblico” di Giulio Mozzi non mi hanno fornito spunti tali da farmi scrivere altri simili approfondimenti, non almeno fino a pagina 148, dove – ri-cavoli – mi si è aperta un’altra possibilità di “ragionamento” su una questione che ogni tanto riaffiora, e mentre lo scrivo mi rendo conto della difficoltà che ho nello scegliere le parole giuste per spiegarmi. Il tema riguarda la cosiddetta arte dozzinale e la frase interessante è questa (in particolare ciò che si trova tra le parentesi): “Analogamente: si prendono delle musiche dozzinali (o, il che è quasi lo stesso, delle musiche nobilissime rese dozzinali dalle consuetudini dozzinali d’ascolto)…”
Il discorso poi continua e c’entra poco o niente con la sovrapposizione che ho fatto io (circa, credo). A ciò infatti io ho sovrapposto un altro concetto illustrato dall’autore quattro pagine prima, laddove viene riportata una formula di Henri Poisseur, secondo cui (cito dal libro non da eventuali “lasciti” di Poisseur): “se l’opera ha vita solo nella fruizione, allora – qui inizia il paradosso – il fruitore letteralmente “fa” l’opera e tutto ciò che il sedicente “autore dell’opera” può rivendicare a sé è l’aver creato dei “campi di possibilità” per il fruitore.” Mozzi prosegue poi col “criticare” le opzioni che offrivano nel concreto le cosiddette opere aperte (quelle che ti facevano scegliere il finale che volevi, ad esempio); ma non è questo che mi interessa. Perché io ho percepito quel “letteralmente” come una sfumatura (più o meno pesante, ma sempre sfumatura). Di fatto io “prendo per buona” l’idea più metaforica, laddove secondo me è davvero vero (scusate il gioco di parole) che è il fruitore, cioè il lettore in questo caso, a “fare” il libro (v. “Scriviamo per gli altri”); nel senso: è lui a capire ciò che capisce (come sto facendo io, insomma) e ciò non sarà necessariamente quello che voleva dire l’autore. Significa che davvero un’opera letteraria bella, potrebbe (potrebbe!) scadere nella mediocrità qualora se ne dovesse cominciare a farne un uso “dozzinale”? (ammesso che – seguendo una logica statistica come la curva di Gauss – dalla massa emerge la media).
È un tema sensibile per quello che mi riguarda. E finora ne ho spesso discusso tenendo la parte contraria: se un’opera è buona dovrebbe restare tale “sempre”. Ma adoro cambiare il punto di vista: anche perché in questi casi una considerazione non mi pare escluda necessariamente l’altra.
Di certo, per me, questo è stato un libro per certi versi evidentemente molto utile…