«Il fu Mattia Pascal» di Luigi Pirandello

È fantastico. Contiene un mondo. Parlo del noto fu Mattia Pascal, che arrivo a leggere tardi alla maniera mia. E pensare che Luigi Pirandello ha un modo di scrivere che mi piace tanto, pari – non mi stancherò di ripeterlo – a quello di Friedrich Dürrenmatt, che per me sembrano dello stesso stampo.
LA TRAMA
Mattia Pascal. Un nome e cognome. Un’identità. Una vita divisa in più vite che comprendono la morte. Una famiglia, che, non infine ma all’inizio, riconosce un morto, quando morto non è. Due anni di libertà che portano all’annientamento della propria immagine riflessa, schiacciata dall’ombra e sotto il peso della menzogna. Sino al desiderio di uccidere il morto. La finzione di sé stesso. Il miserabile. Adriano, un cappello di viaggio. Un bastone e un bigliettino. Adriano Meis. E fu il fu Mattia Pascal.
OLTRELATRAMA
Dicevo in apertura che questo libro contiene un mondo intero. La questione della morte in vita. Quella della libertà svincolata dalla comunità. Scuola di scrittura narrativa data dalla creazione di passati e presenti finzionali, elaborati sin nei dettagli (la storia dell’anellino, ricordo del nonno dei tempi di Firenze quando il fu Mattia ormai Adriano era dodicenne, è fantastica!): come rendersi credibili con elementi di realtà, la verifica della tenuta della storia, la ricaduta di una finzione.
E poi il tema della solitudine. Uh! La solitudine e l’invisibilità sociale come prezzo della libertà.
Ed è pure drammaticamente molto ironico.
Il valore di una identità, di un nome.
Ma soprattutto è attualissimo. Lo vorrei fare leggere tra i banchi di scuola e a tutti quelli che inneggiano alla libertà, alla fuga, alla conquista di altre vite. Leggete, leggete.
A me è piaciuto tanto leggere questo libro. Tanto. Leggetelo.