«L’amore molesto» di Elena Ferrante

Cercherò di non lasciarmi influenzare troppo dal mio gusto personale. Ho finito di leggere “L’amore molesto” di Elena Ferrante. Un libro scritto da qualcuno che sa controllare bene la scrittura. Donnesco, come romanzo (imparando da un’espressione di Trevisan). Forse non per una questione di tema, questa volta, ma di tono. E volto pagina.
LA TRAMA
Alla protagonista muore la madre che viene ritrovata annegata in mare, circostanza che fa subito pensare al suicidio. La figlia vuole però vederci chiaro. Parte dunque per un viaggio a ritroso, verso casa, verso i ricordi che man mano riemergono. E in quel tornare a galla, come il corpo della madre che riaffiora dopo l’annegamento, mostrano indizi di un disagio dilagante, di un padre violento, di forme di protezioni sbagliate, di temi ricorrenti in tutte le famiglie, più o meno, di gelosie e di richieste di attenzioni, di incontri e rincorse, di sensi di colpa e desideri. Come va a finire non lo dico, anche se per l’intero libro si intuisce non tanto il come ma il cosa è capitato davvero.
OLTRELATRAMA
Mi piace la gestione dei flashback. Sono ben riusciti, si incastrano perfettamente in una macchina che viene oliata sin dalle prime pagine: ogni luogo, ogni situazione, l’ascensore, un vestito, uno sguardo, sono tutti inneschi di ricordi, in un andirivieni dal presente e dal passato, che poco a poco diventa andirivieni da finzione – o menzogna di sopravvivenza – e realtà dei fatti. Mi piace l’idea di un viaggio fisico parallelo a quello introspettivo. Ha un suo perché il tema.
Trovo, invece, troppo studiato l’aggancio alla realtà che si àncora a un sistema di immagini fatto di sangue e ciclo, alla perdita non controllata, al cambio dell’assorbente, agli slip sporchi, anche perché sembra proprio una di quelle operazioni per turbare per forza, cioè appare come l’inserimento di un elemento di disturbo per non far stare sereno il lettore e ogni tanto schifarlo, ma del tutto inutile ai fini narrativi.
Stratagemmi, li chiamo io, o “effetti speciali”, come l’immagine della zingara discinta – ritratta dal marito assente – che cammina affiancata al corteo funebre della moglie morta (per caso ovviamente). Il sacro e il profano. Il solito.
E sin qui l’elenco di alcune delle tante furbizie; che ci stanno, eh, per chi ci “crede”. Ci mancherebbe. Quello che amo poco e che rende “donnesco” il romanzo è, secondo me e come anticipato, il tono. Non per assonanza dei cognomi, ma ho pensato sin da subito alla Morante, a quella voce da vittima ingenua, quasi casuale che ha poco contezza manco della sua stessa esistenza. Ecco, quel tono vittimistico, che cerca di drammatizzare tutto (a costo di inserire nelle immagini degli assorbenti sporchi di sangue) a me davvero fa cadere la catena, come dicono in certi ambienti contrapposti.
E questo tipo di voce, di attitudine, di propensione tendo a perdonarla meno di una scrittura poco controllata. Mi spiego. Di recente ho letto una decina di pagine scritte da un giovane acerbo, con una scrittura non solo poco, ma direi per niente controllata, che ha tentato di rendere una forma di sofferenza reale, ma senza riuscirci perché ha caricato le immagini con una serie di ridondanze e clichè e formule stantie. Ecco, non mi ha infastidita, e penso che con un po’ di cura potrà sgrezzare quel malloppo su cui lavora da dieci anni. Quando vedo invece che il controllo c’è, eccome; che è evidente la consapevolezza di quanto viene scritto; quando vedo che uno scrittore sa quello che sta facendo, ecco, allora mi irrito davanti a certe scelte perché mi sembrano a tratti un po’ forzate.
Già detto altre volte, lo so. La differenza è che man mano che mi trovo di fronte a certe espressioni e certi meccanismi, mi rendo sempre più conto di che cosa mi infastidisce. E dunque cercando di seguire il consiglio di un amico, ho pensato di capire quello che mi infastidiva in questo libro. Che non era una metafora, per dire. Neanche una questione di iperboli; non solo singole frasi. È la scelta di un sistema di immagini e di un tono, o una voce, che drammatizzano ogni momento descritto, anche quando non c’è nulla di drammatico. Il disagio che si fa materia. Eccezionale (anche se magari ci possono essere modi più originali o comunque meno pirotecnici), perché il prodotto finale è una macchina acchiappa like. Ma che non si piglia il mio, perché io tendo a diffidare dei piagnistei inutili. O, forse, semplicemente non li sopporto più (e qui è questione di esperienze personali e di gusto, quindi mi fermo).
Ovviamente capisco benissimo il motivo del suo successo… e fa anche molta tendenza, mi pare, dico, come modello di scrittura.