Quanta immedesimazione…

«Martin Eden» di Jack London

L’ho già detto a più riprese durante queste settimane di lettura: so che può sembrare da un certo punto di vista “strano” e dall’altro anche molto presuntuoso, ma tant’è!, ho preso l’impegno con me stessa di cercare di essere il più possibile sincera nel fornire queste note di lettura, per cui non posso certo astenermi ora che la persona “compromessa” sarei io. Quel che dico è che mi immedesimo molto in “Martin Eden” di Jack London…

LA STORIA:
La faccio spiccia (come sempre, via!): Martin Eden è un marinaio poco colto, tanto da sentirsi a disagio in certi ambienti borghesi, ma abbastanza intelligente per ragionare con la sua testa e mettersi a studiare. Il caso lo porta nel salotto di una famiglia distinta. Qui conosce una donna che gli fa perdere la testa. Per lei si istruirà così da diventare una persona alla sua altezza, e tenterà anche di diventare scrittore. Dopo vari fallimenti, alla fine – come si intuisce sin dall’inizio – la sua caparbietà verrà premiata, ma ormai sarà troppo tardi…

OLTRELATRAMA:
Una delle poche cose che non vengono sottolineate, ma che mandano avanti la storia, quasi come fosse un’idea di controllo costante sui personaggi è il binomio, anzi la dicotomia tra soldi e arte, sia da un punto di vista strettamente letterale, sia in quanto “diritto all’istruzione” ed “essere colti non significa per forza essere intelligenti, e viceversa”.
Non mi importa però di quest’altra variante che va a toccare di più il confronto tra società diverse, povere e ricche. Mi interessa invece la distinzione più semplice e letterale che in verità non è altrettanto marcata con una chiara linea di confine – non in questo libro -, ma la si intende man mano che si procede nella lettura: all’inizio il protagonista sogna semplicemente dei «soldi facili» con lo scopo di elevare il proprio stato sociale ed economico così da poter portare all’altare la sua amata. Tuttavia, per gran parte del romanzo, Martin Eden mentre studia divorando libri come un forsennato e scrive con altrettanta enfasi (ispirato spesso dalla sua amata), fallisce ogni tentativo di farsi pubblicare, per cui si ritrova affamato più spesso di quanto il corpo di un giovanotto dovrebbe essere, eppure rifiuta sempre di più e in modo categorico l’invito di trovarsi un altro lavoro; anche perché gli impedirebbe di investire tempo utile in questo suo progetto. È così che a un tratto ci si rende conto che la sua passione per la scrittura si trasforma da necessità economica in necessità della ricerca del bello e di un conseguente riconoscimento dell’arte espressa, ché rimanesse per l’appunto solo legata a una questione di soldi, certamente rinunzierebbe. E invece non lo fa. Anzi porterà all’estrema conseguenza ciò che è diventato…

Io non so se definirlo un bel libro. A me è ovviamente piaciuto. Come potrebbe non piacermi un «fratello di carta»?

Non metto citazioni.

3 pensieri su “Quanta immedesimazione…

  1. In Martin Eden mi sono ritrovata. L’ho letto in un periodo particolare della mia vita: dopo le due gravidanze. Un intervallo, un limbo, un tempo in bilico fra lasciare andare per sempre l’amore per la scrittura e la letteratura e rimboccarmi le maniche e farne, invece, il mio secondo braccio, l’altro emisfero pensante e creativo, il mio terzo occhio. La storia di Martin Eden, nonostante l’epilogo drammatico (ma decisamente inevitabile), mi ha aiutato a capire che la voglia di crescere in un ambito in cui non abbiamo investito tutto le nostre energie per tempo è non solo legittima, ma preziosa. Da quella lettura mi sono rimessa a studiare letteratura, a scrivere storie con maggiore impegno e senso di autocritica e ho ricominciato a credere nella mia capacità di essere altro, oltre a quello per cui avevo studiato fino a quel momento. Altro? Sì, perché no? Anche altro. Molto più che una cosa sola. Noi donne, forse, siamo nate anche per questo.
    Grazie per questa bella pagina, è utile e molto interessante.

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